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Conferme Biomolecolari alle celebri affermazioni di Montagnier


Conferme Biomolecolari alle celebri affermazioni di Montagnier in “House of numbers” pubblicate sulla rivista Blood


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NOTA: Questo documento è stato ispirato e prodotto da Christine Johnson, che ha compilato la sua lista iniziale di Continuum nel 1996 senza il suo aiuto e l’aiuto di collaboratori di OMSJ, questo rapporto non sarebbe stato possibile.


TROVERETE DI SEGUITO tutte le analisi molecolari  per verificare la presenza di anticorpi, di antigeni e del genoma ( scaricabili attraverso il seguente link)

  • Tests Only Online.pdf

    RICORDIAMO CHE  i test anticorpali non sono in grado di rilevare l’infezione da HIV in quanto puoi avere incontrato il virus (come dimostrato dalla firma molecolare), ma essere sieronegativo


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  • Abbott HIVAB™ HIV-1/HIV-2 (rDNA) EIA

  • Abbott HIVAB HIV-1 EIA

  • Abbott HIVAG-1 Monoclonal (1989)

  • Abbott HIVAG-1 (1989)

  • Abbott HIVAB™ HIV-1/HIV-2 (rDNA) EIA

  • Abbott Prism HIV O-Plus

  • ARCHITECT HIV Ag/Ab Combo

  • Bio-Rad Multispot HIV-1/HIV-2 Rapid Test

  • Calypte HIV-1 Urine EIA

  •  Cambridge Biotech HIV-1 Western Blot Kit

  • Chembio HIV 1/2 STAT-PAK™ Assay

  • COBAS® AmpliScreen HIV-1 Test, version 1.5

  • Coulter HIV-1 P24 AG Assay

  •  Fluorognost HIV-1 IFA

  • Genetic Systems rLAV – Bio-Rad Laboratories

  • Genetic Systems HIV-1 HIV-2 Peptide (Plus O) EIA

  • Genetic Systems HIV-2 EIA

  •  Genetic Systems HIV-1 Western Blot Bio-Rad

  • Home Access HIV-1 Test System

  • INSTI™ HIV-1 Antibody Test

  • Maxim HIV-1 Urine EIA

  •  MP Diagnostics HIV BLOT 2.2

  • Murex SUDS HIV-1 Test

  • NucliSens HIV-1 QT

  • OraQuick® ADVANCE Rapid HIV-1/2 Antibody Test

  •  OraQuick® Rapid HIV-1 Antibody Test

  •  OraSure HIV-1 Western Blot Kit

  • Procleix ® HIV-1/HCV Assay

  •  Reveal™ Rapid HIV -1 Antibody Test

  • Roche Amplicor HIV-l Monitor Test

  • Sure Check® HIV 1/2 Assay

  • Trugene HIV-1 Genotyping Kit

  •  UltraQual HIV-1 RT-PCR assay

  • Uni-Gold™ Recombigen® HIV

  • Versant® HIV-1 RNA 3.0 Assay

  • Vironostika® (Avioq) HIV-1 Microelisa System

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  • MultiTEST CD3 FITC/CD8 PE/CD45 PerCP/CD4 APC

  • Guava® Express CD3/CD4 Reagent Kit

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Recentemente un gruppo di ricerca italiano ha dimostrato e pubblicato sulla prestigiosa rivista Blood (http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22286198) che si può contrarre l’ HIV molte volte e rimanere (o tornare) sieronegativi (in perfetta linea con quanto detto e messo per iscritto da Montagnier).


Questi ricercatori, mediante sofisticate analisi molecolari hanno dimostrato che esistono soggetti i cui CD4 recano traccia (firma di miRNA) molecolare dell’incontro con HIV, ma che restano (o tornano ad essere) sieronegativi (vedi lavoro su Blood allegato).


Le parole chiave sono all’inizio della discussione: “In this study, we have shown that exists a miRNA signature that discriminate infected from exposed uninfected subjects“. Cioè esistono soggetti con esposizioni multiple che hanno incontrato inequivocabilmente il virus (miRNA signature), definiti “exposed” ma restano (o tornano ad essere) sieronegativi, e secondo loro, “uninfected”.


Questa è la dimostrazione molecolare delle parole del Nobel Montagnierpuoi incontrare l’HIV tutte le volte che vuoi ed il tuo sistema immunitario se ne libererà in poche settimane, se hai un buon sistema immunitario”. Il che vuol dire che prima viene l’immunodeficienza e poi l’infezione produttiva di HIV ed eventualmente la sua cronicizzazione.


Questo lavoro dimostra chiaramente che i test anticorpali non sono in grado di rilevare l’infezione da HIV in quanto puoi avere incontrato il virus (come dimostrato dalla firma molecolare), ma essere sieronegativo.


Se si entra nel dettaglio, ovviamente lo studio dimostra che l’esposizione era avvenuta molto tempo prima; cioè non è che ancora non sono diventati HIV+ e lo diventeranno tra un po’. Questo è scritto chiaramente nella discussione. Inoltre il lavoro su Blood dimostra che l’approccio con vaccini che usino proteine virali (vedi la bufala miliardaria sulla proteina TAT) non appare molto promettente (nonostante 25 anni di ricerche e soldi pubblici spesi dall’Istituto Superiore di Sanità).


Infatti nelle conclusioni scrivono chiaramente, pur usando la diplomazia necessaria: “Furthermore, the evidence that HIV-1 antigen exposure (as observed both in ex vivo and in vitro condition) causes a significant change in miRNA expression profile, is particularly intriguing because of its possible implication for understanding the inefficacy of some HIV-1 vaccine based on viral proteins as antigens.)”. Cioè, danno per acquisita l’inefficacia e dicono che grazie ai loro risultati si può comprendere il perché dell’inefficacia, In sintesi, per i profani,questo articolo dimostra che :


  • 1 si può essere esposti a quello che viene chiamato hiv e/o alle sue proteine specifiche e rimanere sieronegativi ;

  • 2 I soggetti esposti all’Hiv che non diventano sieropositivi non svilupperanno dunque mai l’Aids per definizione ;

  • 3 I test Elisa e Western Blot non sono dunque adeguati per dimostrare l’esposizione all’Hiv dato che gli autori dimostrano che ci sono individui che recano la firma molecolare di esposizioni multiple all’Hiv ma rimangono sieronegative ai test suddetti ;

  • 4 Quindi la sieropositività non è dovuta alla sola esposizione all’Hiv; ci sono altri fattori che rendono sieropositivi ;

  • 5 Ipotetici vaccini sono inutili, e questo spiega l’ennesima truffa e il totale fallimento con annesso spreco di miliardi, Vaccini promessi dal 1984 da Gallo in USA e in Italia dalla Ensoli. Vaccini mai visti. E che mai vedremo.

Considerazioni finali: le prove scientifiche fornite da questo articolo aprono un algoritmo che non ammette tertium: se le proteine non sono virali (e per questo si resta sieronegativi) allora si deve ammettere che esistono proteine non virali identiche a quelle virali e quindi essere sieropositivi non vuol dire aver incontrato il virus.


Oppure si sostiene che quelle proteine (di cui resta la firma nei CD4) sono proprio ed esclusivamente quelle virali ed allora si è costretti ad ammettere che si può incontrare il virus tutte le volte che si vuole e l’organismo se ne libera in poche settimane (come detto e messo per iscritto da Luc Montagnier). Tanto in fretta se ne libera che il soggetto non fa in tempo a montare una risposta anticorpale e resta sieronegativo.


  • http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22286198

Di seguito è riportata l’intervista al Premio Nobel Luc Montagnier


(reperibile e scaricabile attaraverso il link di seguito)

Montagnier_intervista.pdf


Luc-Montagnier


Luc Montagnier scoprì l’HIV?


Di Djamel Tahi Continuum inverno 1997


Testo della conferenza filmata effettuata all’Istituto Pasteur nel luglio 1997 (evidenziazione di affermazioni particolarmente significative in giallo da parte del traduttore, FF). Please note: The answers by Luc Montagnier have been numbered for easier reference to the analyses in the reply by Papadopulos-Eleopulos et al.


DT: Un gruppo di scienziati australiani afferma che nessuno finora ha isolato il virus dell’AIDS, l’HIV. Per loro le regole dell’isolamento dei retrovirus non sono state correttamente rispettate per l’HIV. Queste regole sono: coltura, purificazione del materiale con ultracentrifugazione, fotografie con Microscopio Elettronico (EM) del materiale che si separa alla densità dei retrovirus, caratterizzazione di queste particelle, prova della infettività delle particelle.


LM: No, questo non è isolamento. Noi effettuammo l’isolamento poiché noi “passammo oltre” il virus, noi facemmo una coltura del virus. Per esempio Gallo disse: “Essi non hanno isolato il virus … e noi (Gallo et al.), noi l’abbiamo fatto emergere in abbondanza in una linea cellulare immortale.”
Ma prima di farlo emergere in linee cellulari immortali, noi lo facemmo emergere in  colture di linfociti normali di un donatore di sangue. Questo è il criterio principale. Uno aveva qualcosa che poteva passare avanti serialmente, che uno poteva mantenere. E caratterizzarlo come un retrovirus non solo per le sue proprietà visive, ma anche biochimicamente, l’attività della RT (transcriptasi inversa) che è propriamente specifica dei retrovirus. Noi avevamo anche la reazione degli anticorpi contro alcune proteine, probabilmente le proteine interne. Dico probabilmente per analogia con la conoscenza di altri retrovirus. Uno non avrebbe potuto isolare questo retrovirus senza la conoscenza di altri retrovirus, questo è ovvio. Del tutto. (1)


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DT: Mi lasci tornare alle regole dell’isolamento virale che sono: coltura, purificazione alla densità dei retrovirus, fotografie al microscopio elettronico del materiale alla densità dei retrovirus, caratterizzazione delle particelle, prova della infettività delle particelle. Sono stati effettuati tutti questi passaggi per l’isolamento dell’HIV? Vorrei aggiungere che, in accordo con le numerose citazioni bibliografiche pubblicate dal gruppo australiano, la Transcriptasi inversa non è specifica dei retrovirus ed in più il Suo lavoro per individuare la transcriptasi inversa non venne forse fatto su materiale purificato?


LM: Io penso che abbiamo pubblicato su Science (maggio 1983) un gradiente che ha dimostrato che
la transcriptasi inversa (RT) aveva la densità di 1,16. Così uno aveva un picco che era la RT. Così uno ha assolto questo criterio di purificazione. Ma effettuarlo in passaggi seriali è difficile perché quando poni il materiale in purificazione, in un gradiente, i retrovirus sono molto fragile,così si rompono uno con l’altro e perdono gran parte della loro infettività. Ma penso che anche così abbiamo mantenuto una parte della loro infettività. Ma non era così semplice come lo è oggigiorno, perché le quantità del virus erano comunque molto basse. All’inizio noi ci imbattemmo in un virus che non uccideva cellule. Il virus veniva da un paziente asintomatico e così fu classificato tra i virus non formanti sincizi, non citopatogeni usando il co-recettore ccr5. Era il primo virus BRU.
Se ne aveva una piccolissima quantità, e non si poteva passarlo nelle linee di cellule immortali. Provammo per alcuni mesi, non ci riuscimmo. Riuscimmo molto facilmente con il secondo ceppo. Ma qui sta il problema piuttosto misterioso della contaminazione di quel secondo ceppo dal primo. Questo era il LAI. (2)


DT: Perché le fotografie al ME da Lei pubblicate provengono dalla coltura e non dalla purificazione? LM: C’era così poca produzione di virus che era impossibile vedere cosa poteva esserci in un concentrato di virus da un gradiente. C’era troppo poco virus per fare quello. Naturalmente lo si cercava, lo si cercava nei tessuti fin dall’inizio, così nelle biopsie. Noi vedemmo alcune particelle ma non avevano la morfologia tipica dei retrovirus. Esse erano molto differenti. Relativamente differenti. Così con le colture ci vollero molte ore per trovare le prime immagini. Fu uno sforzo titanico! E’ facile criticare dopo l’evento. Quello che non avevamo, ed io l’ho sempre riconosciuto, era la dimostrazione che fosse veramente la causa dell’AIDS. (3)


DT: Come è possibile senza la fotografie con microscopio elettronico dalla purificazione sapere se queste particelle sono virali ed appartengono ad un retrovirus, più in particolare ad uno specifico retrovirus?


LM: Bene c’erano fotografie della gemmazione. Noi pubblicammo immagini della gemmazione che sono caratteristici dei retrovirus. Avendo detto ciò, unicamente sulla morfologia non si poteva affermare che era veramente un retrovirus. Per esempio, uno specialista francese di Microscopia elettronica pubblicamente mi ha attaccato dicendo: “Questo non è un retrovirus, è un arena virus”. Questo perché ci sono altre famiglie di virus che gemmano e hanno estroflessioni sulla superficie, etc. (4)


DT: Perché questa confusione? Le fotografie con Microscopio Elettronico non mostravano chiaramente un retrovirus?


LM: In quel momento I retrovirus meglio conosciuti erano quelli di tipo C, che erano molto tipici. Questo retrovirus non era di tipo C ed i lentivirus erano poco conosciuti. Io stesso l’ho riconosciuto cercando tra le fotografie del virus dell’anemia infettiva equina nella biblioteca, e poi il virus Visna.  Ma, io ripeto, non era solamente la morfologia della gemmazione, c’era la transcriptasi inversa … era l’associazione di queste proprietà che mi indusse a dire che era un retrovirus (5).


DT: A proposito di transcriptasi inversa, è rivelata nelle colture. Quindi c’è la purificazione dove uno trova particelle retrovirali. Ma a questa densità ci sono molti altri elementi, tra gli altri quelli che uno chiama “simil-virali”.


LM: Esattamente, esattamente. Se preferisce non è una proprietà ma l’assieme delle proprietà che ci fece dire che era un retrovirus della famiglia dei lentivirus. Presi da sole nessuna delle proprietà è veramente specifica. E’ l’associazione di esse. Così noi avevamo : la densità, RT, fotografie delle gemmazioni e l’analogia con il visna virus. Queste sono le quattro caratteristiche. (6)


DT: Ma come tutti questi elementi costituiscono prova di un nuovo retrovirus? Alcuni di questi elementi potrebbero appartenere ad altre cose, “simil virali”…? LM: Si, e per di più noi abbiamo retrovirus esogeni che talvolta esprimono particelle – ma di origine endogena, e che perciò non hanno ruoli patologici, in ogni caso non in AIDS. (7)


DT: Ma uno come può cogliere la differenza?


LM: Perché noi potevamo passare oltre al virus. Noi passammo oltre alla attività della transcriptasi inversa nei nuovi linfociti. Noi ottenemmo un picco di replicazione e tenemmo traccia del virus. Era l’associazione delle proprietà che ci portò a dire che era un retrovirus. E perché nuovo? La prima domanda a noi posta dalla Natura era: “E’ o no una contaminazione di laboratorio? E’ forse un retrovirus murino o un virus animale?” Così uno poteva dire no! Perché noi abbiamo dimostrato che il paziente aveva anticorpi contro le proteine di questo virus. L’associazione (delle proprietà) ha una logica perfetta! Ma è importante prenderla come un’associazione.

Se voi prendete ciascuna proprietà separatamente, essi non sono specifici. E’ l’associazione che da’ la specificità. (8)


DT: Ma alla densità dei retrovirus, avete osservato particelle che assomigliavano a retrovirus? Un nuovo retrovirus?


LM: Alla densità di 1.5, 1.16, noi avevamo un picco di attività della transcriptasi inversa, che è l’enzima caratteristico dei retrovirus. (9)


DT: Ma poteva quello essere qualcosa d’altro?


LM: No nella mia opinione era molto chiaro. Non poteva essere che un retrovirus in quella maniera. Poiché l’enzima che Barré Sinoussi caratterizzò biochimicamente aveva bisogno del magnesio, così come l’HTLV. Aveva bisogno della matrice, il template, il primer che erano completamente caratteristici di una transcriptasi inversa. Questo era fuori discussione. A Cold Spring Harbour nel  settembre 1983, Gallo mi domandò se io ero sicuro che era una RT: Lo sapevo, Barré Sinoussi aveva fatto tutti I controlli per quello. Non era una semplice polimerasi, era una trascriptasi inversa. Lavorava solo con i primer a RNA, formava DNA: Questo era sicuro. (10)


DT: Con gli altri retrovirus che avete incontrato nella vostra carriera, avete seguito le stesse procedure ed avete incontrato le stesse difficoltà


LM: Direi che per l’HIV è un procedimento facile. Paragonato con gli ostacoli che uno trova con gli altri … poiché il virus non compare o perché l’isolamento è sporadico – si riesce una volta su cinque. Sto parlando circa la ricerca attuale su altre malattie. Uno può citare il virus della Sclerosi Multipla del prof Peron. Egli mi mostrò il suo lavoro 10 anni fa e ci mise circa dieci anni per trovare una sequenza genica che è molto vicina a quella di un retrovirus endogeno. Vede, è molto difficile. Poiché egli non riuscì a propagare il virus, egli non poté farlo crescere in una coltura. Mentre l’HIV cresce come erba matta. Il ceppo LAI per esempio cresce come erba matta. E’ così ha contaminato le altre colture. (11)


DT: Con cosa coltivaste I linfociti del vostro paziente? Con la linea cellulare H9? LM: No, poiché non funzionava affatto con la H9. Noi usammo molte linee cellulari e l’unica che poteva produrlo erano i linfociti Tambon. (12)


DT: Ma usando questi tipi di elementi, è possibile introdurre altre cose capaci di indurre una RT e proteine, ecc?


LM: Completamente d’accordo. Questo è il motive per cui non eravamo tanto entusiasti di usare linee cellulari immortali. Per coltivare il virus in grandi quantità – OK. Ma non per caratterizzarlo,poiché noi eravamo consapevoli di portare dentro altre cose. Queste sono linee cellulari MT che sono state trovate dai Giapponesi (MT2, MT4) che replicano l’HIV molto bene e che nello stesso tempo sono trasformate dall’HTLV. Perciò voi avete una mistura di HIV e HTLV. E’ una vera minestra. (13)


DT: Quel che più conta, non è possible che il paziente sia infettato da altri agenti infettivi?


LM: Potevano esserci dei mycoplasmi … potevano esserci un sacco di cose, ma per fortuna avevamo l’esperienza negative con i virus associate con il cancro e che ci era d’aiuto, poiché avevamo incontrato tutti questi problemi. Per esempio, un giorno ebbi un bel picco di RT, che F. Barre-Sinoussi mi diede, con un gradiente di densità un po’ più alto, 1,19. Ed io controllai! Era un mycoplasma, non un retrovirus. (14)


DT: Come accorgersi della differenza tra cosa è virale e cosa non lo è? Perché a questa densità c’è un sacco di altre cose, incluse particelle “simil virali”, frammenti cellulari …


LM: Sì, questo è il motivo con le colture di cellule poiché uno vede le fasi della produzione virale. Voi avete l’estroflessione. Charles Dauget (uno specialista in microscopia elettronica) guardava piuttosto alle cellule. Ovviamente guardava anche il plasma, il concentrato, ecc non vide niente di importante. Poiché se fai un concentrato, è necessario fare sottili sezioni [per vedere con EM], e per fare sottili sezioni è necessario avere un concentrato almeno della grandezza di una testa di spillo. Queste sono le enormi quantità di virus che sono necessarie. All’opposto, si fa una sezione di cellule molto facilmente ed è in queste sezioni sottili che Charles Dauget trovò il retrovirus, in differenti fasi di estroflessione. (15)


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DT: Quando si guarda alle fotografie elettroniche, per lei che è un retrovirologo, è chiaramente un retrovirus, un nuovo retrovirus?


LM: No, a quel punto non si può dire. Con le prime immagini di estroflessione, potrebbe essere un virus tipo C. Non si può distinguere. (16)


DT: Non potrebbe essere qualcosa d’altro che un retrovirus?


LM: No, ebbene, dopotutto, sì. Ma c’è un … noi abbiamo un atlante. Uno riconosce qualcosa per la padronanza dell’argomento, cos’è un retrovirus e cosa non lo è. Con la morfologia uno può distinguere, ma presuppone una certa buona conoscenza. No … bene, dopo tutto sì …avrebbe potuto essere un altro virus ad estroflettersi. Ma c’è un … noi abbiamo un atlante. Uno conosce un po’ dalla somiglianza, cosa è un retrovirus e cosa non lo è. Con la morfologia uno può distinguere, ma presuppone una certa famigliarità. (17)


DT: Perché nessuna purificazione?


LM: Ripeto, noi non purificammo. Noi purificammo per caratterizzare la densità della RT, che era certamente quella di un retrovirus. Ma non cogliemmo il picco … o non funzionò … poiché se purifichi allora danneggi. Così per le particelle infettive è meglio non toccarle granché. Così, tu prendi semplicemente il sopranatante delle colture dei linfociti che hanno prodotto il virus e le poni in piccola quantità in altre colture di linfociti. E così segue che tu passi il retrovirus serialmente e trovi sempre le stesse caratteristiche e tu aumenti la produzione ogni volta che effettui un passaggio. (18)


DT: Così lo stadio della purificazione non è necessario?


LM: No, no, non è necessario. Quello che è essenziale è passare avanti il virus. Il problema che Peron ebbe con il virus della sclerosi multipla era che non poteva passare il virus da una coltura ad un’altra. Questo è il problema. Egli provò un poco, non a sufficienza per caratterizzarlo. Ed oggigiorno caratterizzare significa soprattutto allo standard molecolare. Se tu vuoi la procedura va più velocemente.
Per farlo: un DNA, clonare questo DNA, amplificarlo, determinarne la sequenza, ecc. Così tu hai il DNA, la sequenza di DNA che ti dice se questo è realmente un retrovirus. Uno conosce la struttura famigliare dei retrovirus, tutti i retrovirus hanno una struttura genomica famigliare con questo e quel determinato gene che sono caratteristici. (19)


DT: Così, per l’isolamento dei retrovirus lo stadio di purificazione non è obbligatorio? Si può isolare senza purificare?


LM: Si, non si è obbligati a trasmettere materiale puro. Sarebbe meglio, ma c’è il problema che si danneggia (il virus) e si diminuisce la infettività dei retrovirus. (20)


DT:Senza andare attraverso questo stadio di purificazione, non c’è un rischio di confusione sulle proteine che uno identifica e anche sulla transcriptasi inversa che potrebbe venire da qualcos’altro?


LM: No, dopotutto, ripeto che noi abbiamo un picco di RT alla densità di 1,15, 1,16, ci sono 999 probabilità su 1000 che è un retrovirus. Ma questo poteva essere un retrovirus di origine diversa. Ripeto, ci sono alcuni retrovirus endogeni, pseudo-particelle che possono essere emesse dalle cellule, ma anche così, dalla parte del genoma che codifica i retrovirus. E che uno acquisisce attraverso l’ereditarietà, nelle cellule per un tempo molto lungo. Ma infine io penso per la prova – poiché le cose evolvono nel modo consentito dalla biologia molecolare che permette persino una più facile caratterizzazione questi giorni – è necessario procedere molto velocemente alla clonazione. E questo venne fatto molto velocemente, sia da Gallo sia da noi stessi. Clonare e sequenziale, e così uno ha la completa caratterizzazione. Ma io ripeto, la prima caratterizzazione appartiene alla famiglia dei lentivirus, la densità l’estroflessione, ecc, le proprietà biologiche, l’associazione con le cellule T4. Tutte queste cose sono parte della caratterizzazione, e fummo noi a farlo. (21)


DT: Ma viene il momento in cui uno deve effettuare la caratterizzazione del virus. Questo significa: quali sono le proteine di cui è composto?


LM: Questo è il punto. Così dunque, l’analisi delle proteine del virus richiede produzione di massa e purificazione. E’ necessario fare questo. E là io dovrei dire che questo parzialmente ha fallito. J.C. Chermann aveva questo incarico, almeno per le proteine interne. Ed egli ebbe difficoltà nel produrre il virus e non funzionava. Ma questa era una possibile strada, l’altra era di ottenere l’acido nucleico, clonare, ecc. E’ questo il modo che ha funzionato molto velocemente. La prima strada non funzionava poiché noi avevamo a quel tempo un sistema di produzione che non era efficiente a sufficienza. Uno non aveva a disposizione abbastanza particelle prodotte per purificare e caratterizzare le proteine virali. Non poteva essere fatto. Uno non poteva produrre una adeguata quantità di virus a quel tempo, perché quel virus non si manifestava nelle linee cellulari immortali. Noi potemmo farlo con il virus LAI, ma a quel tempo noi non lo sapevamo. (22)


DT: Gallo lo fece?


LM: Gallo? .. Non so se egli realmente purificò. Non lo credo. Io credo che si lanciò molto velocemente sulla parte molecolare, il che significa sulla clonazione. Quello che fece è il Western Blot. Noi usammo la tecnica RIPA, così quello che fecero era nuovo cioè dimostrarono alcune proteine che non si erano viste bene con le altre tecniche. C’è un altro aspetto della caratterizzazione del virus. Non puoi purificarlo ma se conosci qualcuno che ha gli anticorpi contro le proteine del virus, puoi purificare il complesso antigene/anticorpo. Questo è quello che si fece. E così uno aveva una banda visibile, marcata radio attivamente, che si chiamò proteina 25, p25. E Gallo ne vide altre. C’era la p25 che egli chiamò p24, c’era la p41, che egli vide … (23)


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DT: Riguardo gli anticorpi, numerosi studi hanno mostrato che questi anticorpi regiscono con alter proteine o elementi che non sono parte dell’HIV. E che non sono sufficienti a caratterizzare le proteine dell’HIV


LM: No! Poiché avevamo controlli. Noi avevamo persone che non avevano l’AIDS e non avevano anticorpi contro queste proteine. E le tecniche che abbiamo usato erano tecniche che io stesso avevo perfezionato alcuni anni prima, per individuare il gene src. Lei vede il gene src che fu anch’esso identificato con la immunoprecipitazione. Era la p60 (proteina 60). Ero molto abile, e così i miei tecnici, con la tecnica RIPA. Se uno ottiene una specifica reazione, è specifica. (24)


DT: Ma noi sappiamo che I pazienti con AIDS sono infettati da una moltitudine di altri agenti infettivi che sono suscettibili a …


LM: Ah, sì, ma gli anticorpi sono molto specifici. Essi sanno come distinguere una molecola tra un milione. C’è una grandissima affinità. Quando gli anticorpi hanno una sufficiente affinità, Lei identifica qualcosa di realmente molto specifico. Con anticorpi monoclonali, Lei “pesca” realmente una sola proteina. Tutto questo è usato per la determinazione diagnostica dell’antigene. (25)


DT: Per Lei la p41 non era di origine virale e così non apparteneva all’HIV. Perché questa contraddizione?


per leggere la conclusione dell’intervista ( punti 25-35) clicca il link seguente


Montagnier_intervista.pdf


Questa,l’intervista al Premio Nobel Luc Montagnier,mai confutata da nessuno,del famoso gruppo di ricercatori di Perth,in Australia a cui si collegano i seguenti documenti 

(CLICCA IL LINK SEGUENTE)

Reply to Montagnier-Tahi interview in ITALIAN.doc


Generalmente si accetta che Peyton Rous scoprì i retrovirus nel 1911, quando indusse tumori maligni nei polli attraverso iniezioni di filtrati privi di cellule ottenuti da un tumore muscolare. Esperimenti simili furono ripetuti da diversi ricercatori ed i filtrati indotti dai tumori furono resi noti come agenti filtrabili, virus filtrabili, agenti di Rous, virus di Rous. Tuttavia, lo stesso Rous espresse dubbi riguardo al fatto che gli agenti che causavano i tumori fossero (in realtà) infettivi. In verità, Rous avvertì che, ‘La prima tendenza sarà quella di considerare l’agente auto perpetuante attivo in questo sarcoma del pollo come un piccolissimo organismo parassita. L’analogia con diverse malattie infettive dell’uomo e degli animali inferiori, causata da organismi ultramicroscopici, suffraga questa visione delle risultanze e, attualmente, il lavoro viene indirizzato per la sua verifica sperimentale. Comunque non è impossibile un’azione di altro tipo. E’ plausibile che una sostanza chimica stimolante, prodotta dalle cellule neoplasiche, possa causare il tumore in un altro ospite e, di conseguenza, possa provocare una ulteriore produzione della medesima   sostanza stimolante’.(1)


 

 

Nel 1928, A E Boycott, presidente della Reale società di medicina, Sezione di patologia, nel suo Discorso presidenziale intitolato ‘‘La transizione dalla vita alla morte: la natura dei virus filtrabili’, disse: ‘Un altro fenomeno analogo ci porta, penso, ad un ulteriore livello. I prodotti dell’autolisi delle cellule morte nel corpo, in una concentrazione idonea, stimolano la crescita tissutale. E’ un meccanismo meraviglioso di auto regolazione nel quale la quantità di stimolo è proporzionale alla quantità di distruzione delle cellule, e quindi alla quantità di crescita cellulare richiesta, ed è ovviamente di grandissima importanza per la sopravvivenza – un fattore molto più potente nella selezione ed evoluzione di qualsiasi precedente malattia. Come avviene normalmente nella guarigione delle nostre dita tagliate, il risultato finale è semplicemente la ricostruzione delle cellule che furono distrutte. Ma se la normale restrizione esercitata dai tessuti vicini viene evitata e vengono impiegate colture di tessuti, i prodotti dell’autolisi o del metabolismo (sotto forma di estratti di tessuti, tumori, o embrioni) stimolano la crescita indefinitamente e si potrebbe ottenere una molto più grande quantità di tessuto rispetto a quella con cui si iniziò. Dall’autolisi di ciò, si può ottenere una maggiore quantità di sostanza stimolante, e non sembra che ci sia alcuna ragione per cui questo processo di moltiplicazione debba avere un qualsiasi limite: i tessuti normali nell’isolamento fisico di colture di tessuti sono tanto immortali quanto i tessuti maligni nel loro isolamento fisiologico dal resto del corpo…


Questi prodotti dell’autolisi…non hanno ricevuto l’attenzione dovuta, ma hanno probabilmente delle costituzioni relativamente semplici e riscontrabili. Tuttavia, quando vengono applicati alle cellule, causano crescita e, nel farlo, aumentano potenzialmente la loro stessa quantità; questo è anche ciò che fa l’agente di Rous…Per quanto riguarda l’origine, tutta l’evidenza sembra concorrere ad indicare che il virus di Rous si origina de novo in ciascun tumore. Non esistono prove epidemiologiche che indichino che il cancro arrivi all’organismo da fuori; tutto ciò che sappiamo appoggia la visione classica che si tratta di una malattia locale autoctona. I sarcomi sperimentali prodotti dall’estratto di embrione e dall’indolo, dall’arsenico o dal catrame sono stati trasmessi dai filtrati. Gli epiteliomi vengono prodotti facilmente, nei topi, attraverso il catrame e, nell’uomo, attraverso l’irritazione cronica; e se crediamo che tutti i tumori maligni contengano più o meno un agente cancerogeno simile al virus di Rous, ne consegue che possiamo, con un considerevole grado di certezza, stimolare i tessuti normali a produrre virus’.(2)


 

 

Dieci anni prima, in un articolo intitolato ‘La teoria del plasmagene come origine del cancro’, quando discuteva l’induzione del cancro attraverso l’agente di Rous, i virus filtrabili e le particelle ‘auto propaganti’ trasmesse per ereditarietà, ma che stanno fuori dal nucleo, riscontrate nelle piante e ‘conosciute come plasmageni’, Darlington scrisse: ‘Verrà visto che queste infezioni sono artificiali, o almeno innaturali. Adesso la distinzione tra infezione naturale o artificiale è nota da tempo, anche se poco considerata, nella discussione dei virus delle piante. Una serie di condizioni aberranti possono essere trasmesse dal progenitore al discendente, e alcune hanno originato un discendente dopo che è stato innestato in un ceppo sano. Queste sono malattie artificiali, che in realta’ vengono trasmesse solo attraverso l’innesto. Alcune possono essere originate dalla mutazione delle proteine auto propaganti nelle cellule delle piante propagate durante lunghi periodi attraverso mezzi vegetativi (come possono esserlo i tumori). Altre sono emerse, certamente, attraverso la migrazione o il trapianto di proteine da un organismo all’altro. In qualsiasi caso hanno una proprietà d’infezione che possono svelare solamente in circostanze artificiali…Quindi facciamo un grosso errore nel chiamarli virus; sono dei provirus…Vale la pena rispondere ad un’altra domanda: Quale forma è possibile che prenda la proteina mutante nella cellula tumorale? A causa della sua veloce moltiplicazione, potrebbe mostrare a ragione un maggiore grado di aggregazione rispetto al suo progenitore. Apparirebbe allora come una particella estranea nella cellula mutante. Ciò è avvalorato dalle osservazioni al microscopio elettronico di due agenti tumorali nei polli della classe dei provirus di Claude, Porter e Pickels (1947)’.(3)


 

 

L’osservazione al microscopio elettronico di Claude et al è la prima relazione riguardo a particelle simili ai virus in un tumore, le prime microfotografie elettroniche del ‘virus Rous’. Subito dopo, molti altri ricercatori riferirono questi tipi di particelle in molti tumori e, come Boycott predisse, nei ‘tessuti normali stimolati’. Per quanto riguarda la predizione di Darlington che quelle particelle possono essere dovute ad ‘un maggior grado di aggregazione’ del citoplasma, può essere interessante notare che: (a) affinché si producano le proteine, gli acidi nucleici o l’aggregazione proteine/acidi nucleici (condensazione, contrazione), è necessaria l’ossidazione;(4) (b) i tessuti tumorali sono ossidati;(4) (c) tutti gli agenti adoperati per ‘stimolare i tessuti normali’ a indurre i retrovirus sono agenti ossidanti.(5-7)


 

 

Negli anni 40, in seguito allo sviluppo della microscopia elettronica (EM) e della tecnica di ultracentrifugazione nei gradienti di densità, le particelle osservate nei tessuti maligni potevano essere isolate, e quindi purificate, cioè, separate da tutte le altre cose. Poiché queste particelle furono viste nei tessuti maligni, ‘fu ipotizzato che le particelle costituissero l’agente eziologico della malattia’ e, negli anni 50, gli agenti filtrabili di Rous si resero noti come oncovirus (onkos=tumore). La principale caratteristica morfologica di queste particelle è una ristretta gamma di diametri e la caratteristica fisica principale è la loro densità.(8) Quando l’ultrastruttura di queste particelle fu determinata, le particelle sono state definite di un diametro dai 100 ai 120nM contenenti ‘corpi (cori) interni condensati’ e superfici ‘costellate da sporgenze (punte, protuberanze)’.(9)


 

 

Negli anni 50, dei retrovirologi rinomati, come ad esempio J W Beard, riconobbero che le cellule, comprese le cellule non infettate, sotto diverse condizioni, erano responsabili della generazione di un assortimento eterogeneo di particelle, alcune delle quali possono sembrare oncovirus. Questo ‘problema delle particelle’ portò all’opinione che, per provare l’esistenza di un retrovirus, ‘lo schema di approccio (come fu ben illustrato da ciò che è stato concepito e rigorosamente testato nelle indagini degli agenti virali), è relativamente semplice. Ciò consiste in:


(1) isolamento delle particelle d’interesse;


(2) recupero (purificazione) delle particelle che sono omogenee rispetto alla classe di particella in un dato preparato;


(3) identificazione delle particelle, e..


(4) analisi e caratterizzazione delle particelle, per riscontrare le proprietà fisiche, chimiche e biologiche desiderate’.


Beard sottolineò anche che ‘l’identificazione, la caratterizzazione, e l’analisi sono soggetti a discipline note, stabilite da indagini intensive, e le possibilità non sono state esaurite in alcun modo. Stranamente, è in questo campo che vengono visti i difetti più frequenti. Queste manchevolezze si relazionano, alle volte, con l’evasione delle discipline o con la loro applicazione a materiali inadatti. Come fu previsto, una grande parte dell’interesse agli aspetti più tediosi dell’isolamento e all’analisi delle particelle è stato deviato dai processi  più semplici e indubbiamente informativi della microscopia elettronica. Mentre si può imparare molto e velocemente con lo strumento, è comunque chiaro che i risultati ottenuti adoperandolo non possono mai sostituire, e assai spesso possono oscurare, la necessità di analisi fondamentali e critiche che dipendono dall’accesso ai materiali omogenei’(10) (il corsivo è nostro).


 

 

I retrovirologi concordarono anche sul fatto che i Virioni dell’RTV (retrovirus) hanno una densità esuberante caratteristica, e la tecnica preferita per la purificazione dell’RTV è la centrifugazione all’equilibrio in gradienti di densità’.11 In un incontro europeo sull’uso della centrifugazione nei gradienti di densità, tenuto nell’Istituto Pasteur nel 1972, dove Jean-Claude Chermann faceva il segretario, fu sottolineato che una volta che i liquidi di coltura (supernatanti) sono marcati a bande, la banda di densità nella quale vengono intrappolati i retrovirus (ciò varia leggermente a seconda della sostanza impiegata per produrre i gradienti), deve essere completamente analizzata. Il saggio consiste da quanto segue:


 

 

‘Saggi per i Virus del tumore a RNA

 


 

            Fisici


Microscopia elettronica (colorante negativo e sezione fine)

Conta dei virus

Morfologia

Purezza

 


 

            Biochimici


Transcriptasi inversa

RNA 60-70S, RNA totale

Proteina totale

Analisi col gel di proteine virali e dell’ospite e acidi nucleici

 


 

            Immunologici

Diffusione su gel

Fissazione complementare*

Immunofluorescenza*

 


 

            Biologici

Contagiosità in vivo

Contagiosità in vitro

 

*Con reagenti specifici per gli antigeni avvolti e interni gs e env’.(12)

 


 

(La transcriptasi inversa è un enzima che è stato scoperto negli oncovirus nel 1970 (13), di qui il loro nome presente: retrovirus, e RNA 60-70S, l’RNA ‘virale’. I retrovirus vengono alle volte chiamati virus tumorali a RNA, perché il loro genoma è composto da RNA e non da DNA).

 


istitut pasteur

Il metodo specificato nell’Istituto Pasteur nel 1972 non è dunque diverso da quello discusso da J. W. Beard due decenni prima. In verità, il metodo è logica basica applicata alla definizione di un virus. E’ impossibile affermare che una proteina o un RNA sono retro virali, a meno che non si dimostri prima che questi sono costituenti di una particella e che la particella è infettiva. Come si può vedere, il primo passo è l’esame con la microscopia elettronica per dimostrare che la banda contiene particelle con le caratteristiche morfologiche dei retrovirus e, come segnalarono Francoise Barre-Sinoussi e Jean Claude Chermann nell’incontro all’Istituto Pasteur, che la banda sia pura, che contenga, cioè, nient’altro che particelle che ‘non hanno differenze palesi nell’apparenza fisica’.(14)


 

Il secondo passo nell’analisi del materiale a 1,16g/ml è provare che le particelle sono capaci di trascrivere inversamente l’RNA in DNA. Tuttavia, come Gallo stesso mise in guardia nei confronti del riscontro di particelle, anche quelle che contengono la transcriptasi inversa, è prova insufficiente per dimostrare che una particella è un retrovirus. La prova completa dipende da esperimenti che:


  • (a) ottengono particelle da una coltura dove sono separate da qualsiasi altra cosa (isolate), che dimostrano che le particelle contengono proteine e RNA ma non DNA e che le proteine sono codificate dall’RNA (il genoma virale);

  • (b) dimostrano che quando le particelle vengono introdotte in una coltura di cellule non infettate, le particelle entrano nelle cellule, l’RNA delle particelle viene trascritto inversamente in DNA che viene incorporato nel DNA cellulare;

  • (c) dimostrano che queste cellule a loro volta producono particelle simili a quelle retrovirali;

  • (d) dimostrano che le particelle prodotte da queste cellule contengono proteine e RNA che sono identici a quelli delle particelle originali introdotte nelle cellule;

  • (e) dimostrano che le colture cellulari identiche a quelle nelle quali furono introdotte le particelle simili a quelle retrovirali non producono tali particelle, quando vengono coltivate esattamente nelle stesse condizioni, ma invece di introdurre particelle retrovirali, si introduce un altro materiale di coltura, come ad esempio le microvescicole cellulari.

Ciò è perché, a differenza di qualsiasi altro agente infettivo, tutte le cellule contengono genomi retrovirali che, sotto condizioni appropriate, si possono esprimere in coltura. In altre parole, ciò può portare ad avere all’apparenza retrovirus noti come retrovirus endogeni. Ne consegue che, sia le cellule nella coltura dalla quale le particelle originali furono ottenute, sia la coltura nella quale furono introdotte, possono produrre particelle retrovirali identiche, anche se le particelle che furono introdotte non erano infettive. Di conseguenza, è assolutamente necessario avere controlli idonei.

 


 

Per provare l’esistenza di un retrovirus le particelle simili a quelle retro virali devono dunque venire isolate e analizzate due volte. La prima volta per ottenere e analizzare i costituenti delle particelle prodotte nella prima coltura, la seconda volta per provare che le particelle prodotte, semmai ce ne sia qualcuna, provenienti dalle cellule nella seconda coltura, sono identiche alle particelle ancestrali. L’avvertimento cruciale in questa procedura è l’impiego di tecniche sperimentali per controllare gli effetti della co-coltivazione, gli agenti chimici e gli altri diversi fattori che, da soli, possono indurre fenomeni retrovirali indipendenti dall’infezione retrovirale esogena.(15-17)

 


 

Per concludere, all’inizio degli anni 80, i retrovirologi concordarono che,  per provare l’esistenza dei retrovirus, prima si devono isolare (purificare) le particelle candidate, ed il metodo per raggiungere ciò era attraverso la marcatura con le bande in un gradiente di densità.

 


 

Sintesi dell’articolo del 1983 su Science di Montagnier e colleghi

 


 

Nel 1983 Luc Montagnier, i suoi colleghi dell’Istituto Pasteur ed altri ricercatori francesi pubblicarono un articolo che viene ritenuto il primo studio nel quale fu provata l’esistenza dell’’HIV’. L’articolo è intitolato: ‘Isolamento di un retrovirus linfotropico T da un paziente a rischio di Sindrome di immunodeficienza acquisita (AIDS)’(18), che aveva Francoise Barre-Sinoussi come autore principale e Jean Claude Chermann come secondo autore. L’affermazione degli autori di aver isolato un retrovirus, e che quindi avevano provato la sua esistenza, era basata sui seguenti esperimenti:

 


 

  1. I linfociti provenienti dai linfonodi di due pazienti con linfoadenopatie come anche cellule mononucleari del sangue periferico di questi pazienti ‘furono messi in un mezzo di coltura insieme alla fitoemagglutinina (PHA), il fattore di crescita delle cellule T (RCGF), e l’antisiero contro l’interferone umano…Nel topo, abbiamo mostrato previamente che l’antisiero contro l’interferone poteva aumentare la produzione di retrovirus per un fattore da 10 a 50’. I supernatanti erano regolarmente analizzati per riscontrare l’attività di transcriptasi inversa (RT), adoperando il primer da stampo sintetico An.dT12-18. ‘Dopo 15 giorni di coltura, fu individuata un’attività di transcriptasi inversa nel supernatante della coltura del linfonodo’ di uno dei pazienti, il primo paziente. (Il livello di attività non viene dato). ‘I linfociti del sangue periferico coltivati nella stessa maniera erano consistentemente negativi nei confronti dell’attività di transcriptasi inversa anche dopo 6 settimane’. Lo stesso accadeva per entrambe le colture provenienti dal secondo paziente. Apparentemente l’individuazione di attività RT fu considerata come prova dell’infezione da un retrovirus.

 


 

  1. I linfociti di un donatore di sangue adulto e sano sono stati messi in coltura (le condizioni di coltura non sono state fornite) e dopo tre giorni la metà della coltura fu co-coltivata con linfociti provenienti da una coltura del paziente nella quale fu individuata l’RT. (Le condizioni non sono state fornite). ‘Si poteva individuare l’attività di transcriptasi inversa nel supernatante nel quindicesimo giorno delle co-colture’, (il livello di attività non viene fornito) ma non nella coltura del donatore del sangue. (Non viene menzionato se le condizioni nella coltura del donatore del sangue erano le stesse delle condizioni della co-coltura. Tuttavia, è ovvio che le cellule del donatore del sangue non furono co-coltivate con linfociti provenienti da linfonodi di pazienti che non erano a rischio di AIDS, ma che comunque avevano anormalità cliniche e di laboratorio simili al paziente numero uno. Visto che quella co-coltivazione porta alla comparsa di retrovirus endogeni, questa è una omissione significativa del protocollo sperimentale).

 


 

3. 3. Dei linfociti normali del cordone ombelicale furono coltivati durante tre giorni (le condizioni di coltura non sono state fornite), dopodiché sono stati aggiunti dei supernatanti provenienti dalla co-coltura e dal polibrene. ‘Dopo un periodo di latenza di 7 giorni, fu individuato un titolo relativamente elevato di attività di transcriptasi inversa’. (Infatti l’attività era relativamente bassa, non più di 8.000 conteggi per minuto). E’ stata riferita un’attività di sfondo che raggiungeva 4000 conteggi per minuto.(19) Le ‘Colture identiche’ alle quali non era stato aggiunto un supernatante, rimasero negative. (Poiché non è stato aggiunto alcun supernatante, le colture non potevano essere identiche. Poiché il supernatante proveniente da colture non infettate aggiunte alle cellule normali non infettate porta alla comparsa di retrovirus endogeni, ciò è anche una differenza significativa). Gli autori, quando commentarono le risultanze dei tre esperimenti, scrissero: ‘Queste due infezioni successive mostrano chiaramente che il virus poteva propagarsi su linfociti normali provenienti sia da neonati sia da adulti’. Le conclusioni dei tre esperimenti furono anche apparentemente considerate prova dell’’isolamento’, comunque, ‘Il fatto che questo nuovo isolato era un retrovirus, fu indicato ulteriormente dalla sua densità in un gradiente di saccarosio, che era di 1,16’.

 


 

4. L’evidenza proveniente dai gradienti di saccarosio consisteva in due parti.


  • (a) il supernatante dei linfonodi del sangue ombelicale, nel quale fu individuata l’attività RT, fu marcato a bande nei gradienti di densità del saccarosio. Fu riferita un’attività RT massima nella banda 1,16g/ml.

  • (b) Fu aggiunta la metionina alla coltura di linfociti del sangue del cordone nella quale fu individuata l’attività RT [35S], cioè, la metionina radioattiva, un aminoacido che viene incorporato alle catene di proteine che si sviluppano e la cui radioattività consente l’individuazione di proteine del genere. Sono stati eseguiti due tipi di esperimenti con questa coltura, uno con le cellule, e l’altro con il supernatante:

  • (i) un estratto di cellula fu lisato (rotto) e centrifugato. Sono stati aggiunti diversi sieri a parti del supernatante cellulare (contenenti anticorpi) e le proteine sono state elettroforizzate (separate attraverso l’impiego di un campo elettrico) su un gel in una lastra di poliacrilamide-SDS. Sono state riscontrate diverse proteine che hanno reagito, non solo con i sieri provenienti dai due pazienti con linfoadenopatie molteplici, ma anche con i sieri provenienti da un donatore sano e da una capra sana.

  • (ii) il supernatante della coltura fu marcato in bande in un gradiente di densità del saccarosio. Anche se non vengono menzionati degli studi EM della banda 1,16g/ml, si affermò che la banda fu fatta reagire con i sieri dei due pazienti così come dei due donatori del sangue sani, e che fu trattata nella stessa maniera con la quale fu trattato l’estratto cellulare. Anche se nei manoscritti pubblicati è virtualmente impossibile distinguere proteine che reagiscono con qualsiasi siero, anche con sieri provenienti dai due pazienti, si afferma nel testo che ‘quando il virus purificato, marcato [la banda 1,16g/ml] fu analizzato [fatto reagire con i sieri], furono viste tre proteine importanti: la proteina p25 e le proteine con pesi molecolari di 80.000 e 45.000. La proteina 45K può essere dovuta a contaminazione del virus attraverso l’actina cellulare che era presente negli immunoprecipitati di tutti gli estratti cellulari’. (il corsivo è nostro) Gli studi EM della coltura dei linfociti del sangue del cordone ‘mostrarono particelle immature caratteristiche con una gemmazione (di tipo C) densa e crescente sulla membrana plasmatica…Il virus è un virus tumorale a RNA di tipo C tipico’.

 


 

 

 

 

 

Commenti alle risposte di Montagnier

 


 

A1. 1 Se ‘la coltura, la purificazione del materiale per ultracentrifugazione, le fotografie con la microscopia elettronica (EM) del materiale che marca in bande alla densità dei retrovirus, la caratterizzazione di quelle particelle, la prova della contagiosità delle particelle’ non è un vero isolamento, allora perché Montagnier ed i suoi colleghi affermarono nel 1983 di aver isolato l’’HIV’ o eseguendo o affermando di aver eseguito tutte queste procedure tranne una (nessuna fotografia EM del materiale marcato a bande)?


Perché nell’articolo del 1984, dove loro affermarono il primo isolamento dell’’HIV’ dagli emofiliaci, così come in altri articoli dello stesso’anno nei quali loro affermano anche l’isolamento dell’’HIV’, hanno eseguito o affermavano di aver eseguito tutti questi passi eccetto uno? (20-21) Perché nel loro studio intitolato ‘Caratterizzazione della DNA polimerasi dipendente dall’RNA di un nuovo retrovirus umano linfotropico T (virus associato alla linfoadenopatia)’ (22) affermarono che il virus era stato ‘purificato su un gradiente di saccarosio adoperando la centrifugazione isopicnica (8)’? Il riferimento 8 è l’articolo presentato da Sinoussi e Chermann nel Convegno Pasteur del 1972, dove sottolinearono l’importanza di dimostrare che il materiale marcato a bande conteneva soltanto particelle che ‘non avevano differenze apparenti nelle apparenze fisiche’. (14)


 

2. Il ritrovamento di alcuni o di tutti i fenomeni che delinea Montagnier non sono prova di isolamento. Questi fenomeni possono essere considerati soltanto prova per il riscontro virale e poi, se e solo se, sono specifici dei retrovirus. La parola ‘isolamento’ deriva dal latino ‘insulatus’ che significa ‘trasformare in un’isola’. Si riferisce all’azione di separare un oggetto da tutta la materia estranea che non è quell’oggetto.


Qui, l’oggetto di interesse è una particella retrovirale. Le parole ‘isolamento’ e ‘trasmissione’ hanno significati differenti e distinti. ‘Isolare’ significa ottenere un oggetto, ad esempio una particella retrovirale, separata da qualsiasi altra cosa. ‘Trasmettere’ significa trasferire un oggetto (che può essere isolato o no) da un luogo a un altro, ad esempio, da una coltura a un’altra. Di conseguenza, anche se si ipotizza che il ‘qualcosa’ che Montagnier ed i suoi colleghi trasmisero da una coltura a un’altra, attraverso cellule di trasferimento o supernatanti delle colture, era un retrovirus, e che fu trasmesso ad un infinito numero di colture successive, non è ancora un’evidenza di isolamento.


Ad esempio, se si ha una serie di bottiglie con dell’acqua nelle quali la prima contiene un colorante aggiunto, poi si prende una parte della prima e la si mette nella seconda, e dalla seconda si passa un campione alla terza, eccetera, chiaramente questa procedura non ha isolato il colorante dall’acqua. Una coltura contiene una miriade di cose, perciò, per definizione, non è prova di isolamento di un oggetto. L’unico modo possibile per affermare che uno ha ‘fatto una coltura del virus’ è di aver avuto prove dell’esistenza del virus, prima di fare una coltura. L’unica cosa che Montagnier ed i suoi colleghi hanno dimostrato è l’emergenza di attività RT nella co-coltura con ‘linfociti da un donatore di sangue’. Il riscontro di un enzima nella coltura, anche se è specifico nei confronti dei retrovirus, non è prova di isolamento.


Ad esempio, la misurazione degli enzimi cardiaci o epatici, rispettivamente, nei casi di infarti miocardici o epatiti, non può essere interpretato come ‘isolamento’ del cuore o del fegato. La rivelazione nella coltura di particelle con caratteristiche morfologiche di retrovirus e di attività di transcriptasi inversa o nella coltura o nella banda di 1,16g/ml, anche se ‘veramente specifica dei retrovirus’, non è prova di isolamento retrovirale. Anche se Montagnier ed i suoi colleghi sapevano in precedenza che alcune delle proteine presenti nella coltura o nella banda di 1,16g/ml erano retrovirali, ed i pazienti avevano anticorpi retrovirali che reagivano con queste proteine, una reazione del genere non è prova di isolamento. Un argomento basato su analogie, o anche su conoscenza di altri retrovirus, non può essere inteso come prova di isolamento. Ad esempio, l’osservazione nell’Oceano di qualcosa che ha l’aspetto di un pesce (anche se è un pesce), non è l’equivalente di avere il pesce nella padella separato da qualsiasi altra cosa che c’è nell’oceano.


 

3. Siamo d’accordo con Gallo sul fatto che Montagnier et al non presentarono alcuna prova di ‘isolamento vero’ di un retrovirus, qualsiasi retrovirus, sia vecchio che nuovo, sia esogeno che endogeno.

 


 

4. La ‘conoscenza di altri retrovirus’ dimostra che non tutte le particelle con attività RT e ‘proprietà visive di retrovirus’ sono dei virus. Questo è un fatto riconosciuto anche da Gallo ben prima dell’era dell’AIDS. (23) Inoltre dimostra che l’RT non è ‘veramente specifica dei retrovirus’. Le cellule non infettate, così come i batteri o i virus, oltre ai retrovirus, hanno RT. Secondo alcuni dei più conosciuti retrovirologi, tra cui gli stessi scopritori della transcriptasi inversa, così come Harold Varmus, premio Nobel e direttore degli Istituti della sanità nazionale americana, le transcriptasi inverse sono presenti in tutte le cellule, compresi i batteri. (13,24-25) Infatti, l’attività RT è stata riscontrata in diverse linee cellulari, dalle quali viene ‘isolato’ l’’HIV’, compreso l’H9 ed il CEM, così come i linfociti normali, anche quando non sono infettati con l’’HIV’. (26-27) Montagnier, Barre-Sinoussi e Chermann stessi hanno dimostrato che l’attività RT non è specifica dei retrovirus.


Nel loro articolo del 1972, Barre-Sinoussi scrisse: ‘C’era attività significativa nella zona di campione e nel picco di sedimentazione più veloce, che consisteva principalmente in rifiuti cellulari. Questa attività enzimatica può essere spiegata dalla presenza di alcune particelle di virus in queste regioni e, poiché un’attività polimerasica simile è stata riscontrata nelle cellule normali, può essere attribuita principalmente all’enzima cellulare’.


In questa intervista, quando Luc Montagnier risponde alla domanda 14 dice: ‘Ad esempio, un giorno ebbe un bel picco di RT, che mi dette F Barre-Sinoussi, con una densità leggermente più elevata, cioè 1,19, e ho controllato! Si trattava di un micoplasma, non di un retrovirus’. Allora, come è possibile che Montagnier dica che l’RT è specifica dei retrovirus? Siamo d’accordo che l’attività RT è caratteristica dei retrovirus. Tuttavia, ‘specificità’ non ha lo stesso significato di ‘caratteristica’. I peli sono caratteristici degli esseri umani, ma non tutti gli animali con peli sono esseri umani.

 


 

5. Isolare significa ottenere un oggetto separato da qualsiasi altra cosa. I retrovirus sono particelle e nessuna ‘analogia’ può dimostrare che è stata isolata una particella retrovirale. ‘La conoscenza di altri retrovirus’ può essere di aiuto nello scegliere il miglior metodo per ottenere l’isolamento. La ‘conoscenza di altri retrovirus’ dimostra che il miglior metodo, ma certamente non perfetto, per isolare e dimostrare l’esistenza dei retrovirus, è quello di eseguire la marcatura delle bande isopicniche (densità identica di particella e porzione del gradiente) e di eseguire tutti i saggi specificati nel convegno Pasteur del 1972. Inoltre, la ‘conoscenza di altri retrovirus’dimostra che non c’è niente di specifico circa la morfologia delle particelle retrovirali, delle reazioni proteina-anticorpo o anche delle marcature delle bande alla densità di 1,16g/ml nei gradienti di densità del saccarosio. Le particelle retrovirali marcano una banda alla densità di 1,16g/ml, ma non tutto a quella densità è un retrovirus, comprese le particelle che hanno la morfologia delle particelle retrovirali. (11-13,28) Per ricordare a noi stessi che le cose stanno così, possiamo prendere in considerazione soltanto il ‘primo’ retrovirus umano, l’’HL23V’.


 

A metà degli anni 70, Gallo ed i suoi colleghi riferirono l’isolamento del primo retrovirus umano. Infatti, le prove dell’isolamento dell’’HL23V’ non furono le prove di Montagnier et al e di tutti gli altri nei confronti dell’’HIV’ in almeno tre aspetti importanti. A differenza dell’‘HIV’, nel caso dell’’HL23V’, il gruppo di Gallo:


  • (a) riferì la scoperta di attività RT in leucociti freschi, non coltivati;

  • (b) non avevano bisogno di stimolare le loro colture cellulari con diversi agenti. (Entrambi, Montagnier e Gallo, ammettono che nessun fenomeno che dimostri  l’esistenza dell’’HIV’ può essere riscontrato, a meno che le colture vengano stimolate con diversi agenti);

  • (c) pubblicarono una microfotografia elettronica di particelle che assomigliano ai virus che marcano bande a una densità di saccarosio di 1,16g/ml. (23-29)

Tuttavia, oggigiorno nessuno, neanche Gallo, ritiene l’’HL23V’ come il primo retrovirus umano, e nemmeno lo ritiene un retrovirus. (Per una discussione più dettagliata, vedi Papadopulos-Eleopulos et al (30-32). Dobbiamo dimenticare la seguente conoscenza addizionale riguardo i retrovirus: (a) la lezione dell’enzima adenosin trifosfatasi. Alla pari dell’RT, questo enzima era ritenuto specifico dei retrovirus e, almeno nel 1950, fu impiegato non solo per la loro rivelazione e caratterizzazione, ma anche per la loro quantificazione. (8-11) Tuttavia, al presente, viene accettato che questo è uno degli enzimi più ampiamente diffusi. (b) una percentuale di sieri più elevata proveniente dai pazienti con l’AIDS e da quelli a rischio, reagisce con proteine di retrovirus endogeni rispetto ai sieri dei soggetti sani: il 70% contro il 3%. (33)

 


 

A2. 1 E’ vero che Montagnier ed i suoi colleghi trovarono un picco di attività RT alla densità di 1,16g/ml. Tuttavia, la scoperta di questo picco non è prova che la banda fosse composta da particelle di retrovirus, sia puri che impuri. Di conseguenza, questa evidenza non può essere considerata come prova che ‘è stato soddisfatto il criterio di purificazione’.

 


 

scienze


2. Sulla stessa edizione di Science, dove Montagnier ed i suoi colleghi pubblicarono i loro studi, Gallo segnalò che ‘l’involucro virale che viene richiesto per la contagiosità è molto fragile, tende a staccarsi, quando il virus gemma dalle cellule infette, perciò rende le particelle incapaci di infettare nuove cellule’. Per questo motivo Gallo affermò che ‘può essere richiesto il contatto diretto tra le cellule per l’infezione retrovirale’. (34) Ora tutti gli esperti dell’’HIV’ sono d’accordo che, per la contagiosità dell’’HIV’, è assolutamente necessaria la gp120.


Nel 1993 Montagnier stesso disse che, affinché le particelle dell’’HIV’ fossero infettive devono prima legarsi al recettore cellulare CD4 e che ‘La gp120 è responsabile di legare il recettore CD4’. (35-36) Tuttavia, al giorno d’oggi,  nessuno ha pubblicato fotografie EM di particelle prive di cellule che hanno la dimensione delle particelle retrovirali e che hanno anche protuberanze, punte, cioè gp120, nemmeno Hans Gelderblom ed i suoi colleghi dell’Istituto Koch a Berlino che hanno eseguito gli studi di microscopia elettronica più dettagliati delle particelle presenti nelle colture/co-colture che contengono tessuti derivati dai pazienti con l’AIDS. Su una delle loro pubblicazioni più recenti, dove viene discusso questo argomento, loro giudicano che subito dopo essere state prodotte, le ‘particelle dell’HIV’ hanno una media di 0,5 protuberanze per particella, ma anche segnalò che ‘era possibile che delle strutture che assomigliano a protuberanze siano osservate anche quando non sia presente la gp120, cioè, falsi positivi’. (37)

 


 

Ciò significa che né Montagnier né i suoi colleghi né nessun’altra persona successivamente è stato in grado di infettare colture con cellule provenienti da donatori sani, da linfociti del cordone ombelicale o da qualsiasi altra coltura con l’’HIV purificato’ o, nemmeno dai fluidi privi di cellule (il supernatante delle colture) anche se il virus ‘purificato’ non è nient’altro che particelle. In altre parole, è impossibile che Montagnier ed i suoi colleghi abbiano avuto una qualsiasi contagiosità, nemmeno ‘una piccola’ con il supernatante della coltura o con il ‘virus marcato purificato’. Per la stessa ragione il ‘secondo ceppo’ non poteva essere stato contaminato dal ‘primo’. Per di più, poiché Montagnier et al dettero a Gallo supernatanti privi di cellule, sarebbe stato impossibile che le colture di Gallo fossero contaminate dal BRU, dal LAI o da una miscela.

 


 

 

3. Il virus di Montagnier non proveniva ‘da un paziente asintomatico’, ma da un paziente con ‘linfoadenopatia e astenia’. Né nel loro studio e nemmeno oggi, dopo pressoché quindici anni dell’’HIV’, esiste prova dell’esistenza di un retrovirus umano che ha la capacità di ‘uccidere cellule’. Lo studio che ora viene citato più spesso come prova che l’’HIV’ uccide le cellule T4, ritenuto la ‘pietra miliare’ dell’AIDS, è stato pubblicato nel 1984 da Montagnier ed i suoi colleghi. Loro coltivarono cellule CD4+ (T4) provenienti da un paziente emofiliaco che era un ‘portatore asintomatico di un virus’, ‘in presenza della fitoemagglutinina (PHA) seguito dalla IL-2’. Loro riscontrarono attività RT nella coltura e ‘particelle di virus caratterizzate da un piccolo core eccentrico’. Il numero di cellule T4 (CD4+), nella coltura, fu misurato attraverso il conteggio del numero di cellule capaci di legare un anticorpo monoclonale che si afferma di essere specifico per la proteina CD4. Col passare del tempo, il numero di cellule che erano in grado di farlo diminuì. Quando discussero le loro risultanze, scrissero: ‘Questo fenomeno affascinante può essere dovuto ad una modulazione indotta da un virus nei confronti della membrana cellulare, o per un impedimento sterico del punto agglomerante dell’anticorpo’, cioè, la diminuzione non è causata dall’uccisione delle cellule. (38-39)

 


 

Date le loro risultanze, non è sorprendente la conclusione che la diminuzione nelle cellule T4 non è dovuta all’uccisione delle cellule. Tuttavia, è sorprendente la loro conclusione che l’effetto può essere indotto dal ‘virus’. Montagnier ed i suoi colleghi erano consapevoli della prova sperimentale che dimostrava che, sotto certe condizioni (compresa l’esposizione al PHA, all’IL-2 e ad altri agenti ossidanti),  la diminuzione delle cellule T4 avviene in assenza dell’HIV. In questo tipo di coltura, le cellule T perdono i loro marker CD4 e acquistano altri marker, compreso il CD8, mentre il numero totale di cellule T rimane costante. (40-43) Inoltre, avevano prove che nelle ‘cellule infette, questo fenomeno non può essere riscontrato, a meno che la coltura venga stimolata con sostanze come il PHA o gli antigeni’. (Le proteine come le proteine ‘non-HIV’ presenti nelle colture ‘infette’). (39)


Dati i fatti sopra citati, sorprende ancora di più che Montagnier ed i suoi colleghi non abbiano avuto controlli, cioè, colture di cellule T4 provenienti da pazienti che non erano a rischio di AIDS, ma che tuttavia erano malati, e alle quali aggiunsero PHA e IL-2. Siffatti esperimenti furono riferiti nel 1986 da Gallo ed i suoi colleghi. Presentarono risultanze su tre colture cellulari che contenevano il 34% di cellule CD4 che, per cominciare: Una coltura era ‘infettata’ e stimolata con PHA, l’altra non era infettata ma era stimolata con PHA e la terza non era né infettata né stimolata. Dopo due giorni di coltura, la proporzione di cellule CD4+ nella coltura stimolata-non infettata e stimolata-infettata era del 30% e del 28% rispettivamente, mentre dopo 6 giorni il numero era del 10% e del 3%. Il numero di cellule CD4+ non cambiò significativamente nella coltura non-infettata e non stimolata. (44)


 

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Entro il 1991 Montagnier ed i suoi colleghi avevano eseguito esperimenti con cellule non infettate e non stimolate quando studiarono l’’apoptosi indotta dall’’HIV’’, la quale era ritenuta (e che è ancora ritenuta da molte persone), di essere il meccanismo di principio per il quale l’’HIV’ uccide le cellule. Dimostrarono che, in colture cellulari CEM intensamente ‘infettate dall’’HIV’, in presenza dell’agente di rimozione del micoplasma, la morte cellulare (apoptosi) è massima dai 6 ai 7 giorni posteriori all’infezione, ‘mentre la massimale produzione di virus avveniva dai 10 ai 17 giorni’, cioè, il massimo effetto precedeva la causa massima. Nelle cellule CEM cronicamente ‘infette’ e nella linea di cellule monocitiche U937, non è stata riscontrata alcuna apoptosi, anche se ‘queste cellule producevano continuamente un virus infettivo’.


Nei linfociti CD4 isolati da un donatore normale, stimolato col PHA e ‘infettato dall’HIV’ in presenza dell’IL-2, l’apoptosi diventa riscontrabile 3 giorni dopo l’infezione e chiaramente evidente al quarto giorno. ‘E’ intrigante, nel quinto giorno’ l’apoptosi diventò riscontrabile nelle cellule ‘non infette’ stimolate col PHA. Loro conclusero: ‘Questi risultati dimostrano che l’infezione da HIV delle cellule mononucleari del sangue periferico porta all’apoptosi, un meccanismo che potrebbe avvenire anche in assenza di infezione a causa del trattamento mitogeno di queste cellule’. (45) Per concludere, tutte le risultanze disponibili attualmente dimostrano che l’’infezione da HIV’, in assenza di agenti stimolanti, né diminuisce il numero di cellule T4 né induce l’apoptosi, mentre gli agenti stimolanti (simili a quelli a cui sono esposti i pazienti a rischio di sviluppare l’AIDS) lo fanno in assenza di ‘HIV’. Cioè, né l’’HIV’ che Montagnier ed i suoi colleghi ‘rinvenirono’ all’inizio, né nessun altro ‘HIV’ da quel momento ha dimostrato di ‘uccidere cellule’.

 


 

A3. I retrovirus non sono nozioni esoteriche, nucleari o cosmologiche la cui esistenza postulata può essere dedotta da osservazioni indirette. Sono particelle che possono essere viste, benché non ad occhi nudi. Poiché Montagnier ed i suoi colleghi ammettono che non vedono particelle nella banda 1,16g/ml che abbiano la morfologia dei retrovirus, il fatto di affermare la presenza di un retrovirus, meno ancora di un ‘virus purificato’, è completamente campato in aria e non è credibile. La banda 1,16g/ml può essere paragonata ad una rete da pesca. La differenza è che la banda cattura oggetti a seconda della loro densità, non a seconda della loro dimensione. Immaginate un pescatore che vede nell’oceano molti oggetti diversi, alcuni dei quali possono essere pesci. Lui butta la rete, aspetta e, quando recupera la rete, esegue un esame completo del contenuto e dimostra che contiene diverse creature marine, ma nessuna cosa che assomiglia a un pesce. Tuttavia, anche se può sembrare strano, afferma di aver catturato un pesce. Infatti, afferma che la rete non ha nient’altro che puro pesce.

 


 

A4. Nonostante il fatto che la gemmazione proveniente dalla membrana cellulare è il modo in cui appaiono le particelle retrovirali, questo processo non è specifico dei virus. In altre parole, solo perché una particella riesce a gemmare e ha le caratteristiche morfologiche delle particelle retrovirali, non dimostra che sia un retrovirus. Che questo sia il caso, viene illustrato da due fatti e dalla citazione di due dei retrovirologi più conosciuti: ‘Delle particelle in gemmazione che assomigliano ai virus’ sono state riscontrate in ‘Linee di cellule T CEM, H9 e C8166’ non infette; ‘In 2 linee di linee cellulari B trasformate in EBV; e in colture di cellule linfoidi umane primarie provenienti dal sangue del cordone, che erano stimolate dal PHA o no e cresciute con o senza il siero e in linfociti del cordone direttamente dopo la separazione Ficol’ (46) (il corsivo è nostro). Dopo uno studio esteso e in vivo, eseguito da O’Hara e colleghi provenienti da Harvard, le ‘particelle HIV’ sono state riscontrate in 18/20 (90%) dei pazienti con nodi linfatici ingranditi attribuiti all’AIDS. Queste risultanze portarono gli autori a concludere, ‘La presenza di siffatte particelle non indica per se stessa l’infezione da HIV’. (47)

 


 

Nel 1986, quando Gallo ed i suoi colleghi discussero il ‘Primo isolamento dell’HTLV-III’, scrissero: ‘Nel momento in cui ottenemmo il LAV, c’era la controversia di diversi esperti sulla morfologia dei virus, sul fatto che le particelle mostrate dalla microfotografia elettronica pubblicata su Science da Barre-Sinoussi et al fossero un virus arena…Poiché ritenevamo che la sola rilevazione di particelle di virus nelle colture di pazienti con l’AIDS e l’ARC fosse insufficiente per confermare scientificamente la nostra ipotesi che siffatte particelle erano coinvolte nella eziologia della malattia, perciò, prima abbiamo deciso di ottenere reagenti specifici contro il nuovo virus per pubblicare risultati precisi riguardo all’eziologia dell’AIDS’. (48) Secondo Peter Duesberg, le particelle e proteine ‘HIV’ potrebbero rispecchiare complessivamente un materiale non virale’. (49)

 


 

A5. Montagnier ed i suoi colleghi scrissero nel loro studio: ‘La microscopia elettronica dei linfociti infettati del cordone ombelicale mostrò particelle immature caratteristiche con gemmazione densa crescente (di tipo C) nella membrana plasmatica…Questo virus è un virus tumorale a RNA di tipo C caratteristico’. Nel 1984, Montagnier, Barre-Sinoussi e Chermann riferirono che il loro virus era ‘morfologicamente simile a particelle D come quelle riscontrate nel virus Mason-Pfizer o nel virus recentemente isolato dalle scimmie con l’AIDS ’. (38) (Entro il 1984, i ricercatori dei centri di ricerca sui primati, negli Stati Uniti, affermarono l’esistenza dell’AIDS nelle scimmie e che la causa dell’AIDS era un retrovirus di tipo D, simile al virus di Mason-Pfizer, un retrovirus di tipo D caratteristico e suggerirono che l’AIDS della scimmia e questi retrovirus potrebbero essere utili nello studio dell’AIDS umano e nell’’HIV’).

 


 

Nello stesso anno, in un’altra pubblicazione ancora, Montagnier et al affermarono che le particelle di ‘HIV’ avevano una ‘morfologia simile a quella del virus dell’anemia infettiva equina (EIAV), e alle particelle di tipo D’. L’EIAV ed il virus visna non sono né retrovirus di tipo C né di tipo D, ma sono lentivirus, cioè, virus che hanno una morfologia totalmente differente e che si ritiene inducano malattie molto tempo dopo l’infezione. (Nel momento in cui questo articolo fu pubblicato si riscontrò che i pazienti che avevano un test di anticorpi positivo all’’HIV’ non sviluppavano immediatamente l’AIDS, cioè, c’era un ritardo tra il test positivo e la comparsa dell’AIDS). E’ molto sorprendente che la morfologia dello stesso virus sia capace di cambiare genere da un tipo C, caratteristico, ad una particella di tipo D, caratteristica, e poi ad una sottofamiglia completamente differente, cioè, un lentivirus caratteristico, apparentemente a volontà. (La famiglia Retroviridae viene suddivisa in tre sottofamiglie, Oncovirinae, Lentivirinae e Spumavirinae. Gli Oncovirinae sono divisi a loro volta nei generi di particelle di tipo B, C e D. Queste risultanze sono analoghe alla descrizione di una specie di mammifero simile all’uomo, un gorilla o un orangutan).

 


 

A6 1. Oltre ai retrovirus, altre particelle possono avere ‘l’assemblaggio di proprietà’ (la densità, l’RT, la gemmazione e l’analogia col virus visna). Di conseguenza, la scoperta di particelle che hanno questo ‘assemblaggio di proprietà’ non è prova che le particelle riscontrate siano dei retrovirus. Difatti, Montagnier ed i suoi colleghi non riferirono la scoperta di particelle di ‘HIV’ che avevano queste ‘proprietà di assemblaggio’. Poiché Montagnier ed i suoi colleghi non sono stati in grado di trovare particelle con le caratteristiche morfologiche dei retrovirus alla ‘densità’ di 1,16 gm/ml, nemmeno dopo uno ‘sforzo romano’, ne segue che l’evidenza dell’esistenza dell’’HIV’ dal gradiente di densità non solo non era specifica, ma nemmeno esisteva. (Questo fatto, da solo, è sufficiente per trascurare qualsiasi affermazione come prova dell’esistenza di un retrovirus, indipendentemente dalle altre cose che riscontrarono in qualsiasi posto, comprese le particelle di gemmazione provenienti dalla superficie della cellula, le particelle che somigliano ai retrovirus nella coltura, l’RT alla ‘densità’ o le proteine alla stessa densità che reagiscono coi sieri dei pazienti).


2. E’ vero che Montagnier et al riferirono attività di RT alla densità di 1,16g/ml, ma poiché:


(a) Barre-Sinoussi e Chermann accettano che le cellule ed i frammenti cellulari hanno anch’esse attività di RT;


(b) nella banda 1,16g/ml non è stata vista alcuna particella con le caratteristiche morfologiche dei retrovirus;


(c) a quella densità Montagnier et al riscontrarono frammenti cellulari, ne segue che l’evidenza dell’esistenza dell’’HIV’ attraverso la rivelazione di attività RT a quella densità non era soltanto non specifica, ma anche inesistente. Dati i fatti che:


(a) ci sono differenze significative nel carattere dei processi di gemmazione tra le particelle di tipo C, di tipo D ed i lentivirus50 e il fatto che nel 1983 Montagnier et al si riferirono al loro retrovirus come di tipo C e nel 1984 come di tipo C o di tipo D, e anche più tardi, quello stesso anno, come EIAV;


(b) il virus visna e l’EIAV sono lentivirus, ne deriva che almeno fino a metà del 1984, le prove di Montagnier et al dell’esistenza dell’’HIV’ (se l’’HIV’ è un lentivirus) proveniente da ‘fotografie di gemmazione’ e l’analogia con l’EIAV e col virus visna non era solo non specifica ma addirittura inesistente.

 


 

A7. Siamo d’accordo che esistono dei retrovirus endogeni (ma è interessante il fatto che fino al 1994 ‘non esistono retrovirus endogeni umani’ (51). Questi retrovirus endogeni non possono essere distinti dai retrovirus esogeni né morfologicamente né chimicamente. Inoltre, esistono prove che dimostrano che il 70% dei pazienti con l’AIDS e quelli a rischio, in confronto col 3% dei soggetti non a rischio, hanno anticorpi contro i retrovirus endogeni. (33) Dati questi fatti e le condizioni di coltura che Montagnier ed i suoi colleghi e tutti gli altri ricercatori dell’’HIV’ impiegano per rivelare l’’HIV’ insieme con le risultanze disponibili attualmente sull’’HIV’ e l’AIDS, è più probabile che l’’HIV’ (se si dimostrasse la sua esistenza) sia un retrovirus endogeno, piuttosto che un retrovirus esogeno.

 


 

Parte delle risultanze correlate con le condizioni di coltura possono essere sintetizzate come segue: In coltura, prima o poi le cellule cominciano a produrre retrovirus endogeni. La comparsa di retrovirus endogeni può essere accelerata e la resa può essere aumentata fino ad un milione di volte attraverso la stimolazione delle colture con mitogeni, con co-coltivazioni o mediante l’aggiunta alla coltura di supernatante proveniente da colture cellulari normali e non stimolate. Infatti, nel lontano 1976, i retrovirologi riconobbero che ‘il mancato isolamento di virus endogeni da certe specie può rispecchiare la limitazione delle tecniche di co-coltivazione in vitro’. (52) Per rivelare l’’assemblaggio’ delle ‘quattro caratteristiche’ dell’’HIV’, Montagnier et al (così come tutti gli altri) impiegarono almeno due delle tecniche sopra citate. Infatti, sia Montagnier, sia Gallo ammettono che nemmeno una delle quattro ‘caratteristiche’ possono essere rivelate, a meno che le colture non vengano stimolate. Analogamente, parte delle risultanze vincolate all’’HIV’ e all’AIDS possono essere sintetizzate nel modo seguente:

 


 

(a) E’ vero che i retrovirus endogeni possano non avere un ruolo patologico nell’AIDS, ma è anche vero che, ad oggi, nemmeno esiste una siffatta prova per l’’HIV’. (53) Secondo Montagnier e Gallo la ‘pietra miliare’ della immunodeficienza nell’AIDS è la diminuzione delle cellule T4, che si ritiene sia la conseguenza dell’uccisione delle cellule T4 dall’’HIV’. Tuttavia, Montagnier ed i suoi colleghi ammettono, nel lontano 1984, che almeno in vitro la diminuzione osservata delle cellule T4, dopo l’infezione da ‘HIV’, non è dovuta all’uccisione delle cellule, ma al diminuito legame dell’anticorpo T4 (CD4) alle cellule. Due anni dopo gli esperimenti del gruppo di Gallo dimostrarono, senza dubbi, che la diminuzione delle cellule T4 (del legame degli anticorpi CD4) non era dovuta all’infezione da ‘HIV’, ma alla PHA che era presente nel preparato di ‘HIV’. Come è stato menzionato, all’inizio dell’era dell’AIDS, c’era un’ampia prova che il trattamento delle colture cellulari con PHA e altri agenti ossidanti porta ad un legame diminuito dell’anticorpo CD4 e ad un aumentato legame dell’anticorpo CD8, cioè, una diminuzione delle cellule T4 era accompagnata da un aumento delle cellule T8, mentre il numero totale di cellule rimaneva costante. I pazienti con l’AIDS ed i soggetti che appartengono ai gruppi a rischio di AIDS vengono esposti continuamente ad agenti ossidanti potenti. Nel presente, viene accettato che, sia nei pazienti con l’AIDS, che in quelli a rischio, la diminuzione delle cellule T4 viene accompagnata da un aumento delle cellule T8, mentre il numero di cellule T4 +T8 resta costante. (53) E poi, è interessante notare che, nel lontano 1985, Montagnier scrisse: ‘Questa sindrome [l’AIDS] avviene in una minoranza di persone infettate, che in genere hanno in comune un passato di stimolazione antigenica e di immunosoppressione, prima dell’infezione da LAV’ (54), cioè, Montagnier riconobbe che nel gruppo a rischio di AIDS, l’immunodeficienza precede l’infezione da ’HIV’. Nel 1984 Montagnier ed i suoi colleghi compresi Barre-Sinoussi e Chermann affermarono che ‘Le prove certe necessiteranno di una sperimentazione sugli animali nella quale siffatti virus [LAV, HTLV-III=HIV] potrebbero indurre una malattia simile all’AIDS’. Finora, non esiste una sperimentazione del genere. Tuttavia, quando fu inseguito dal premio Nobel Kary Mullis, affinché presentasse almeno uno studio scientifico che provasse la teoria dell’HIV come causa dell’AIDS, Montagnier gli consigliò: ‘Perché non menzioni il lavoro sul SIV’ (Virus di immunodeficienza delle scimmie); (55)


 

(b) A differenza dei retrovirus endogeni che vengono trasmessi in maniera verticale, si ritiene che l’’HIV’venga trasmesso orizzontalmente, specialmente attraverso i rapporti sessuali. Infatti, al presente, viene generalmente accettato che la grande maggioranza dei soggetti siano stati infettati attraverso il contatto eterosessuale. Secondo Montagnier e Gallo, il primo studio che ha dimostrato fuor di dubbio che l’’HIV’ è un virus trasmesso in maniera eterosessuale e bidirezionale fu pubblicato nel 1985 da Redfield et al. Tuttavia, su un libro pubblicato nel 1990 col titolo AIDS e Sesso, i suoi editori, Bruce Voeller, June Machover Reinisch e Michael Gottlieb, quando discutevano lo studio settoriale incrociato, così come altri studi simili, scrissero: ‘dei ricercatori governativi pubblicarono risultanze che indicano che il personale delle forze armate americane infettato con l’HIV-1 aveva contratto il virus dalle prostitute, dando avvio a richieste di un aumento di campagne contro la prostituzione. Quando i soldati infettati sono stati intervistati dai ricercatori non militari di cui si fidavano, si rese evidente che quasi tutti erano stati infettati attraverso l’uso di droghe intravenose o il contatto omosessuale, atti per i quali potevano essere espulsi dalle forze armate, il che evitò che fossero sinceri con i ricercatori militari. In ciascuno di questi studi invalidati pubblicati, i ricercatori, gli editori di giornali e le persone che lavorano nello stesso campo non corressero errori che avrebbero dovuto essere stati riconosciuti’.

 


 

Nel 1991, Nancy Padian dell’Agenzia di epidemiologia e biostatistica dell’Università di California, ed i suoi colleghi, che ad oggi hanno eseguito i più completi studi sulla trasmissione eterosessuale, quando discussero lo studio di Redfield et al, così come altri studi che affermavano di provare siffatte trasmissioni, scrissero: ‘Questi studi forse non sono stati adeguatamente controllati nei confronti di altre vie di trasmissione non sessuali e infondate come i rischi associati all’uso di droghe intravenose.


Di primo acchito, i casi che sembrano attribuirsi ad una trasmissione eterosessuale possono, dopo un colloquio a fondo, essere vincolati in realtà ad altre fonti di rischio…poiché gli studi associati non sono, per definizione, campioni casuali, e la maggioranza dei risultati riferiti si basa su analisi retrospettive o a sezione incrociata, alcuni studi potrebbero selezionare coppie nelle quali entrambi i partner della coppia sono infettati, perché coppie del genere possono essere identificate più facilmente, perciò condizionano i tassi di trasmissione. Inoltre, è spesso difficile stabilire la fonte d’infezione in coppie del genere. Quando sono disponibili poche risultanze potenziali, arruolando coppie monogame, nelle quali lo stato sierologico del partner è sconosciuto, come fu il caso della maggioranza delle coppie in questo studio, è uno degli unici modi per controllare questo condizionamento’. (56) In realtà, non esiste prova dagli studi eventuali, essendo pochi, che l’’HIV’ sia trasmesso sessualmente. (57-58)


 

Durante il suo studio durato dieci anni, in maniera incontestabile, il più lungo e migliore studio del suo tipo, Padian (59) ed i suoi colleghi non risparmiarono alcuno sforzo nel tentativo di provare che l’’HIV’ è trasmesso a livello eterosessuale. C’erano due parti nel loro studio, una a sezione incrociata, l’altra probabile. Nella prima, delle 360 partner femmine dei casi di indice di maschi infettati, ‘La contagiosità costante, dovuta al contatto per la trasmissione dalla femmina al maschio, fu valutata del 0,0009’. I fattori di rischio per la sieroconversione erano:


(i) rapporti anali. (Montagnier stesso mostrò che un test di anticorpi positivi ritorna negativo e che un conteggio di cellule T4 basso torna normale attraverso la cessazione dei rapporti anali, ciò significa che il risultato positivo non è dovuto a un retrovirus); (60)


(ii) il fatto di avere dei partner che si trasmisero questa infezione attraverso l’uso di droghe (Padian stessa dice che questo significa che le donne possono essere anch’esse utenti di droghe intravenose); (iii) la presenza nella femmina di STD (anticorpi contro i loro agenti causanti) possono avere una reazione incrociata con le proteine dell’’HIV’; (31) Da 82 partner maschi negativi che erano partner di femmine positive solo due hanno sofferto la sieroconversione. Hanno valutato che la possibilità di trasmissione dalla femmina al maschio era 8 volte inferiore a quella da maschio a femmina. Padian stessa questionò la validità di questi due casi. Per il primo, dette diverse ragioni nel 1991, quando il suo caso fu riferito per la prima volta. Nel secondo caso menzionarono il fatto che ‘è sorprendente che la clamidia fu trasmessa simultaneamente o vicino alla trasmissione dell’HIV’, cioè, il test di anticorpi positivo all’’HIV’ comparve al momento in cui il maschio si infettò con la clamidia.

 


 

Nello studio potenziale, che iniziò nel 1990, ‘Abbiamo seguito nel tempo 175 coppie che divergono dall’HIV, per un totale di osservazioni di approssimativamente 282 coppie all’anno…La durata di osservazione più lunga fu di 12 visite (6 anni). Non abbiamo osservato sieroconversioni dopo l’ingresso nello studio…Nell’ultima osservazione, le coppie erano molto più propense all’astinenza o a usare i profilattici costantemente. …


Tuttavia, solo il 75% riferì un impiego del profilattico regolare nei 6 mesi precedenti alla loro visita finale di osservazione’. Nota: Non era stata riferita la sieroconversione solo nello studio a sezione incrociata, ma tutti i casi erano stati diagnosticati prima del 1990. Tuttavia: (i) Tutti gli esperti dell’’HIV’ sono d’accordo sul fatto che la specificità dei test adoperati allora era inferiore a quella impiegata al presente; (ii) I criteri del WB adoperati allora per definire l’’infezione’, al presente non sono sufficienti. Anche se si accettano le risultanze di Padian et al provenienti dallo studio a sezione incrociata, hanno valutato che il rischio che un maschio non infettato si contagi con l’infezione da ‘HIV’ dalla sua partner femmina infettata è di 0,00011 (1/9000). Ciò significa che, in media, i maschi che hanno rapporti sessuali tutti i giorni con una partner femmina infettata, durante sedici anni (cioè, 6000 contatti, 365 all’anno), riporterebbe un 50% di probabilità di infettarsi. Se il rapporto sessuale avviene in una media settimanale, allora ci metterebbe centoquindici anni a raggiungere la stessa probabilità. Sotto quelle circostanze ci si dovrebbe domandare come l’’HIV’ sia riuscito a diventare un’epidemia come conseguenza della trasmissione eterosessuale bidirezionale.

 


 

A8. 1. Nello studio di Montagnier et al del 1983, la rivelazione di nient’altro che attività RT nelle colture stimolate di linfociti originatesi da un omosessuale fu considerata prova che il soggetto era infettato da un retrovirus. Il riscontro della stessa attività nel supernatante di una co-coltura delle stesse cellule con linfociti provenienti da un donatore di sangue sano fu considerato come prova della trasmissione del retrovirus dai linfociti dell’omosessuale ai linfociti del donatore e anche come prova dell’isolamento del virus. Tuttavia, la trasmissione di una attività (RT) non è lo stesso della trasmissione di un oggetto (retrovirus).


 

Inoltre, poiché i linfociti non infettati dall’‘HIV’, così come molti batteri e virus, che sono diversi dai retrovirus, hanno attività RT (l’attività RT è stata riferita in diverse linee cellulari non infettate dall’’HIV’ adoperate per isolare l’HIV come la H9 e la CEM e, nel lontano 1972, nei linfociti normali e stimolati con la PHA), la rivelazione di attività RT in successive colture di linfociti, ciascuna delle quali contiene materiale originato dalla coltura precedente, non è nemmeno prova di trasmissione dell’attività RT.


Per illustrare ciò che Montagnier ed i suoi colleghi hanno fatto, ritorniamo all’analogia del pescatore e la sua rete: Ipotizziamo che il pescatore lancia la sua rete e cattura alcune creature marine. Ne lascia alcune sulla rete come esca e poi la butta un’altra volta. Questa volta, in aggiunta alle creature marine, cattura anche alcuni pesci. Toglie i pesci, lascia alcune creature marine nella rete, la butta un’altra volta e questa volta cattura ancora più pesci. Il pescatore ripete la procedura diverse volte e ogni volta cattura più pesci. Alla pari di Montagnier et al che toglie le cellule e ri-adopera i supernatanti, il pescatore toglie i pesci e ri-adopera le creature marine (‘l’esca’). Evidentemente, i pesci catturati nella rete non sono discendenti dell’’esca’. Il proposito dell’’esca’ è creare le condizioni giuste,affinché i pesci compaiano sulla rete. (In realtà, i veri pescatori passano una vita intera per determinare le condizioni giuste). Tutto quello che il pescatore ‘trasmette’ è il mezzo per catturare i pesci, non i pesci stessi. Analogamente, Montagnier et al sembrano ‘trasmettere’ le condizioni per generare attività RT, perciò creano l’illusione di ‘trasmettere’ attività RT.

 


 

2. Il fatto di avere un picco di attività RT non è prova di avere la ‘replicazione’ di un retrovirus. Inseguire tracce di RT non è lo stesso che inseguire le ‘tracce del virus’.

 


 

3. Ipotizziamo che sia stato isolato un retrovirus e sia stata provata la sua esistenza in colture con tessuti che si originano dagli esseri umani. ‘La prima questione sollevata’ da Nature è: ‘Si tratta di un virus endogeno?’ Solo quando si ha l’evidenza che non si tratta né di un retrovirus umano esogeno, né endogeno, si solleva la questione della ‘contaminazione da laboratorio’ con retrovirus animali.

 


 

4. Ciò che il paziente aveva erano anticorpi che reagivano con una proteina che, in gradienti di densità di saccarosio, marcava una banda a 1,16g/ml. Poiché a quella densità Montagnier ed i suoi colleghi non riuscirono a trovare particelle con le caratteristiche morfologiche di un retrovirus, era inesistente l’evidenza che questa proteina fosse retrovirale. Infatti, loro non avevano alcuna evidenza che la proteina fosse compresa anche nelle particelle non retrovirali, in qualsiasi particella presente a quella densità.

 


 

5. Se Montagnier ed i suoi colleghi sapevano, in qualche maniera, in precedenza, che la proteina che marcava una banda a 1,16g/ml e che reagiva col siero dell’omosessuale fosse la proteina di un retrovirus che era presente nei suoi linfociti (e non nei linfociti del donatore sano o del cordone ombelicale), e, allo stesso tempo, che gli anticorpi fossero indirizzati contro ‘il suo virus’, perché è stato necessario eseguire tutti questi esperimenti per provare la sua esistenza?

 


 

A9. Anche se loro avevano attività RT, alla densità di 1,16g/ml non avevano evidenza dell’esistenza di particelle retrovirali, perciò l’attività non poteva essere considerata prova dell’esistenza di siffatte particelle.

 


 

A10. Nel 1983, Montagnier, Barre-Sinousse e Chermann ed i loro colleghi provarono l’esistenza dell’enzima transcriptasi inversa ‘adoperando le condizioni ioniche descritte per l’HTLV-I’, cioè, ‘5mM Mg2+’ e ‘poli(A).oligo-(dT)12-18 come primer templato’. Queste condizioni ed il suo primer templato possono essere caratteristiche dei retrovirus, ma non sono specifici per l’RT retrovirale né, in realtà, per qualsiasi RT. Anche prima dell’era dell’AIDS, si sapeva che questo primer templato, sotto le condizioni adoperate da Barre-Sinoussi, Montagnier ed i suoi colleghi, può essere trascritto non solo dall’RT, ma anche dalle polimerasi cellulari a DNA. Basti menzionare lo studio intitolato: ‘Caratteristiche della polimerasi a DNA dipendente dall’RNA [RT] di un nuovo retrovirus umano linfotropico T (virus associato alla linfoadenopatia)’ (‘HIV’) nel quale Montagnier, Barre-Sinoussi, Chermann e i suoi colleghi ‘caratterizzarono’ l’RT dell’’HIV’. Lì adoperarono le stesse condizioni ioniche del 1983 e tre primer templati ‘DNA attivato’, poli (A).oligo-(dT)12-18 e poli Cm .oligo-dG 12-18. Riferirono che, mentre la poli Cm .oligo-dG 12-18, un ‘primer templato specifico della transcriptasi inversa’ fu trascritto soltanto dalle cellule ‘infettate dall’HIV’, ‘DNA attivato’ e poli (A).oligo-(dT)12-18 furono trascritti sia dalle cellule infettate che da quelle non infettate.22 In altre parole, la rivelazione di attività RT attraverso l’impiego del primer templato An.dT12-18 non è ancora prova dell’esistenza di RT e, ancora meno, dell’esistenza di una RT retrovirale.

 


 

A11. Niente dichiarazioni.

 


 

A12. Niente dichiarazioni.

 


 

A13. Siamo d’accordo con Montagnier che, quando vengono adoperate colture di linfociti infettate da retrovirus esogeni come l’MT2, l’MT4 e l’H9 (HUT-78), tutti quanti originati da pazienti con ‘leucemia di cellule T4 di adulti’, ritenuta di essere causata dall’HTLV-I, è ‘un vero minestrone’. Tuttavia, data l’esistenza di retrovirus endogeni, quando si adoperano linfociti provenienti da soggetti normali e linfociti del cordone ombelicale, il risultato è ancora ‘un vero minestrone’. Forse, una minestra diversa, ma comunque si tratta ancora di  ‘un vero minestrone’.

 


 

A14. Siamo d’accordo che i pazienti con l’AIDS e quelli a rischio sono infettati da un ‘mucchio di cose’. Inoltre, le colture con tessuti provenienti da questi pazienti, in aggiunta a questi agenti, possono anche essere infettate in vitro con altri agenti, come i micoplasma.

 


 

A15. Può darsi che, alle volte, sia più facile riscontrare una particella con le caratteristiche morfologiche dei retrovirus nella coltura piuttosto che nel plasma. Tuttavia, poiché il ‘concentrato’ virale viene ottenuto dal supernatante della coltura e poiché, per definizione, un ‘concentrato’ avrebbe più particelle per unità di volume rispetto al supernatante della coltura, ne deriva che dovrebbe essere molto più facile vedere una particella nel concentrato, piuttosto che nella coltura. Poiché Montagnier ed i suoi colleghi ‘non videro niente di importante’ nel ‘concentrato’, cioè, nella banda di 1,16g/ml, allora perché nel loro articolo del 1983 affermarono che il ‘concentrato’ non solo conteneva particelle virali, ma un virus ‘purificato’? Nella fotografia col microscopio elettronico che pubblicarono Montagnier ed i suoi colleghi, compreso Charles Dauget, ci sono gemmazioni sulla superficie della cellula, alcune delle quali sono più pronunciate delle altre. Ma qual è l’evidenza che si tratti di virus o che siano in fase di diventarne?

 


 

A16. Siamo d’accordo sul fatto che potrebbe essere qualsiasi cosa.

 


 

A17. Siamo d’accordo che l’esperienza può, alle volte, consentirci di distinguere tra particelle che sembrano retrovirali e altre particelle che sembrano virali adoperando le caratteristiche morfologiche. Tuttavia, ci sono particelle che NON sono virus (compresi i retrovirus) che esibiscono caratteristiche morfologiche identiche ai retrotrovirus. Perciò, a partire dalle considerazioni morfologiche, sia le gemmazioni che le particelle prive di cellule non possono essere ritenute dei retrovirus. Inoltre, le colture di tessuti derivati da pazienti con l’AIDS, contengono una pletora di particelle che sembrano virali, con diametri che vanno dai 65 ai 250nM, forme che sono sferiche, angolari e a forma di lacrima, superficie con o senza punte, e che contengono cori a forma di cono, a forma di stecca, centrosimmetrici e tubulari, così come doppi cori e una miscela di cori. Alla pari delle diverse particelle di tassonomia mutevole ritenute la particella dell’HIV, nessuna di queste particelle è stata purificata e caratterizzata e, come l’HIV, la loro origine e il ruolo devono rimanere una ipotesi. (9,61-64)

 


 

A18. Se loro non hanno purificato le particelle, perché affermano di averlo fatto e continuano ad affermarlo fino a questa intervista?

 

2. E’ vero che riferirono il picco di attività RT alla densità di 1,16g/ml, cioè, alla densità nella quale loro affermavano di avere ‘un virus purificato,marcato’. Tuttavia, come si fa ad affermare che l’attività RT ‘era proprio quella di un retrovirus’, se ‘non raggiunsero il picco…o non ha funzionato’, cioè, quando a quel picco non hanno nemmeno trovato particelle che assomigliano ai retrovirus, meno ancoraretrovirus veri e propri? Per trasmettere un retrovirus da una coltura all’altra, prima si deve avere prove dell’esistenza di un retrovirus nella prima coltura. La ‘trasmissione’ di fenomeni non specifici non è prova della trasmissione di un retrovirus. Inoltre, poiché tutti i fenomeni che Montagnier ed i suoi colleghi considerarono come prova dell’esistenza di un retrovirus, compresa l’attività RT e le particelle che assomigliano a un virus, potrebbero insorgere de novo nelle colture, specialmente sotto le condizioni di coltura che adoperavano, non possono affermare la prova dell’avvenuta trasmissione di qualsiasi cosa. Come hanno fatto Montagnier ed i suoi colleghi per sapere che, se avevano controlli adeguati, gli stessi fenomeni non sarebbero successi nella coltura del donatore del sangue, così come nei linfociti ombelicali, anche se non erano ‘infettati’ dall’’HIV’?

 


 

A19. Se lo stadio di purificazione (isolamento) non è necessario, allora perché Montagnier ed i suoi colleghi affermano di aver provato l’esistenza dell’’HIV’ perché loro lo hanno ‘isolato’, lo hanno ‘purificato’?

 


 

2. Poiché qualsiasi pezzo di DNA può essere clonato e amplificato, la clonazione e l’amplificazione di un pezzo di DNA non fornisce alcuna informazione riguardo all’origine, cioè, se è retrovirale o no. Mediante il sequenziamento di un pezzo del DNA non è nemmeno possibile dire che è ‘veramente un retrovirus’, a meno che non esista una prova precedente che quelle sequenze sono presenti in una particella retrovirale e da nessuna altra parte. Non c’è alcuna cosa specifica riguardo la ‘struttura dei retrovirus’. Se veramente c’è un’unica ‘sequenza di DNA’ che indica che ‘è veramente un retrovirus’ e ‘tutti i retrovirus hanno una struttura genomica familiare con determinati geni’, allora non esiste la tale prova per il ‘genoma dell’HIV’. (32).


Basti menzionare che, ad oggi, non sono state pubblicate due sequenze identiche per il ‘genoma dell’HIV’. Il medesimo paziente può avere sequenze di ‘DNA dell’HIV’ differenti. Secondo alcuni ricercatori dell’Istituto Pasteur, ‘un paziente asintomatico può ospitare almeno 106 varianti dell’HIV distinte geneticamente, e per un paziente con l’AIDS la cifra è superiore a 108.(65-66) Le differenze genetiche possono giungere al 40%.(67) (Confrontare questo alle differenze che vanno dall’1 al 2% tra i DNA degli ominidi, alcuni dei quali codificano per proteine identiche, come ad esempio le catene a e b dell’emoglobina degli scimpanzé e degli esseri umani).


E’ stato riferito che la lunghezza del ‘DNA dell’HIV’ va dai 9 ai 15kb. Nel 1985 i ricercatori dell’Istituto Pasteur riferirono che ‘La struttura genetica dedotta è unica; dimostra, in aggiunta ai geni retrovirali gag, pol ed env, due nuovi e aperti schemi di interpretazione che chiamiamo Q e F’.(68) Nel 1990, si riteneva che il genoma dell’’HIV’ fosse composto da dieci geni, (69) nel 1996 Montagnier riferì che l’’HIV’ ha otto geni (70) e, secondo Barre-Sinoussi, (71) l’’HIV’ ha nove geni.

 


 

A20. 1. Ai fini dell’isolamento dei retrovirus è obbligatoria la fase di purificazione. NON si POSSONO ISOLARE i retrovirus SENZA PURIFICARE. Per definizione, isolare significa ‘mettere da parte o da solo’ (Dizionario Concise Oxford) e ‘purificare’ significa ‘eliminare elementi estranei’ (Dizionario Concise Oxford). Perciò, a meno che non siano rimossi i contaminanti attorno alle particelle ‘HIV’ (cioè, purificare l’’HIV’), le particelle ‘HIV’ NON SONO ISOLATE.

 


 

2. Siamo d’accordo che, per trasmettere un retrovirus, non c’è bisogno di materiale puro. Tuttavia, per trasmettere qualcosa, prima si deve conoscere cosa si trasmette, cioè, deve esserci la prova della sua esistenza. Per i retrovirus, tale evidenza può essere ottenuta solamente attraverso l’isolamento (purificazione) delle particelle, sia mediante la determinazione delle loro proprietà fisiche e chimiche sia con la prova che sono infettive.

 


 

A21. Sì, è impossibile determinare l’identità delle proteine, compresa quella dell’RT, senza l’isolamento. 1. Montagnier ed i suoi colleghi, anche dopo uno sforzo romano, non sono riusciti a riscontrare neanche particelle che assomigliano a un retrovirus a quella densità, perciò, dalla sua esperienza (evidenza sperimentale), esiste zero possibilità e NON 999 tra 1000 che l’attività RT, alla densità di 1,15, 1,16, rappresenti, nel loro caso, un retrovirus.

 


 

2. Siamo d’accordo che potrebbe essere un retrovirus di origine diversa. L’esistenza di retrovirus endogeni, insieme alla presenza nei pazienti con l’AIDS e in quelli a rischio di anticorpi che reagiscono con i loro antigeni, significa che, anche se Montagnier et al avessero provato l’esistenza di un retrovirus, sarebbe stato impossibile dire che il retrovirus abbia avuto origine negli omosessuali e non nei linfociti dei donatori o del cordone ombelicale.

 


 

3. La ‘biologia molecolare’, la ‘clonazione e il sequenziamento’ del genoma dell’’HIV’ è stata discussa nei dettagli altrove.(32-49) Basti menzionare qui che:

 


 

  • (a)  la prova per l’esistenza dell’’HIV’ e infatti per il suo ruolo causativo nell’AIDS è stata affermata prima di qualsiasi ‘biologia molecolare’, ‘clonaggio e sequenziamento’;

 


 

  • (b)  poiché ciascun pezzo di acido nucleico può essere clonato e sequenziato, il clonaggio ed il sequenziamento di un pezzo di acido nucleico non può essere usato come prova dell’esistenza di un retrovirus o del suo genoma. Per il contrario, la prova dell’esistenza di acidi nucleici virali (RNA e cDNA virali) può essere accettata se, e solo se, viene dimostrato che il RNA è un entità molecolare unica, che appartiene a particelle che hanno caratteristiche morfologiche, fisiche e replicative delle particelle retrovirali. Ciò può essere fatto soltanto attraverso la separazione delle particelle da tutte le altre cose, mediante la loro purificazione.

    Invece, Montagnier e Gallo adoperarono ‘una vera minestra’ di colture e co-colture (il gruppo di Montagnier ha anche infettato deliberatamente le colture col virus Epstein-Barr). Il supernatante di queste colture fu marcato con bande nei gradienti di densità del saccarosio. Da tutto l’RNA (ed il DNA) che marcò banda ai 1,16g/ml, loro scelsero arbitrariamente qualche RNA, adoperando criteri specifici completamente non retrovirali e lo chiamarono ‘RNA dell’HIV’, senza alcuna prova che la banda contenesse nemmeno particelle che sembrano retrovirali; (32)

 


 


 

  • (c)  il primo passo, assolutamente necessario per provare che l’’RNA dell’HIV’, retrovirale o no, ebbe origine dai linfociti dei soggetti infettati dall’’HIV’, è eseguire esperimenti di ibridizzazione adoperando linfociti  non coltivati, freschi ed il ‘DNA dell’HIV’ (ottenuto attraverso la transcriptasi inversa dell’’RNA dell’HIV’), come sonda . E’ difficile da capire perché Montagnier ed i suoi colleghi non riferirono esperimenti del genere. Il gruppo di Gallo lo fece ed i risultati furono negativi. Nel 1994 Gallo fu citato in questa rivista, dove diceva: ‘Non abbiamo mai trovato il DNA dell’HIV nelle cellule tumorali di KS…Infatti, non abbiamo mai trovato il DNA dell’HIV nelle cellule T’.(72)

    Al presente non esiste nemmeno uno studio che dimostri l’esistenza di una singola copia del ‘genoma dell’HIV per esteso’ nelle cellule T fresche nemmeno di un singolo paziente di AIDS o di un paziente a rischio di AIDS; (d) Attualmente, il numero di particelle di ‘HIV’ nel plasma viene quantificato attraverso la misurazione dell’’RNA dell’HIV’, la carica virale che viene riferita di essere ‘dai 15 x 103ai 554 x 103 virioni per ml’.(73) Diversi studi affermano di dimostrare che la ‘carica virale’, cioe’, l’’RNA dell’HIV’, la si puo’ diminuire fino a livelli non individuabili attraverso l’uso, sia dell’RT, che degli inibitori della proteasi. Tuttavia, poiché: (i) viene accettato che l’’RNA dell’HIV’ è una trascrizione del ‘DNA dell’HIV’; (ii) per loro natura né l’RT né gli inibitori della proteasi hanno alcun effetto sulla trascrizione del DNA, inibiscono solo l’infezione di nuove cellule, cioè, la diminuzione dell’RNA dell’HIV’ è una conseguenza della diminuzione nel ‘DNA dell’HIV’; ci si aspetterebbe che si potesse determinare l’effetto di questi farmaci attraverso la misurazione del livello del ‘DNA dell’HIV’. Tuttavia, non è stato pubblicato quasi nessuno di tali studi. I pochissimi che esistono dimostrano che né l’RT né gli inibitori della proteasi hanno alcun effetto sul ‘DNA dell’HIV’, (74-76) il che significa che non esiste una relazione tra l’’RNA dell’HIV’ e il ‘DNA dell’HIV’.

 


 

4. Nel 1984, Montagnier ed i suoi colleghi riferirono che la ‘preincubazione dei linfociti T4+ con tre anticorpi monoclonali diversi, indirizzati alla glicoproteina T4, bloccava l’infezione cellulare da LAV’, cioè, bloccava la rilevazione di attività RT nelle cellule T4 ‘infettate’ dall’’HIV’. Conclusero che le loro ‘risultanze indicano fortemente che la glicoproteina T4 è almeno associata con tutto o parte del ricettore per il LAV’.(38) Tuttavia, il bloccaggio di alcuni dei fenomeni di ‘HIV’ non specifici, cioè l’attività RT, non può essere ritenuta prova del bloccaggio dell’infezione da ‘HIV’ o dell’associazione dell’’HIV’ con le cellule T4.

 


 

A22. Siamo d’accordo che ‘l’analisi delle proteine del virus necessita produzione in serie e purificazione. E’ necessario farlo’. Riguardo a ciò, non solo sono falliti parzialmente, ma SONO FALLITI TOTALMENTE. Se ‘l’analisi delle proteine del virus necessita di produzione in serie e purificazione’, lo stesso necessita l’analisi degli ‘acidi nucleici, il clonaggio, ecc.’ Se manca la purificazione del virus allora manca:

 


 

  • (a)  la caratterizzazione degli antigeni virali e l’ottenimento di un gold standard per la reazione antigene-anticorpo, cioè, non possono venir adoperati test anticorpali per definire l’infezione da retrovirus;

 


 

  • (b)  per ottenere e caratterizzare gli acidi nucleici retrovirali, cioe’, l’RNA (cDNA), con sonde e primer per l’ibridizzazione, e con l’uso della PCR,  non possono venir adoperati test molecolari per definire l’infezione retrovirale. Che le cose stiano proprio così viene accettato da Donald Francis, un ricercatore che, con Gallo, svolse un ruolo significativo nello sviluppo della teoria che l’AIDS è causato da un retrovirus.

    Nel 1983 Francis, allora il principale collaboratore delle Attività di laboratorio dell’AIDS, dei Centri americani per il controllo delle malattie ed ex capo del programma di vaiolo del WHO, speculò riguardo a una causa virale per l’AIDS: ‘Dobbiamo fare assegnamento su metodi di identificazione più elaborati attraverso i quali, mediante uno strumento specifico, si possa ‘vedere’ un virus. Alcune sostanze specifiche, come ad esempio gli anticorpi o gli acidi nucleici, possono identificare virus, anche se le cellule rimangono vive. Qui il problema è che tali metodi possono essere sviluppati solo se conosciamo quello che cerchiamo. Cioè, se cerchiamo un virus conosciuto possiamo vaccinare una cavia, ad esempio, con virus puro… Ma, ovviamente, se non conosciamo quale virus stiamo cercando, e perciò non riusciamo a produrre anticorpi nelle cavie, è difficile impiegare quei metodi. Staremmo a cercare un qualcosa che potrebbe o non potrebbe essere lì mediante tecniche che potrebbero o non potrebbero funzionare’(77) (il corsivo è nostro).

 


 

A23. E’ impossibile caratterizzare due sconosciuti virali, cioè, le loro proteine e gli anticorpi indirizzati contro di loro, attraverso la formazione di un complesso anticorpo/antigene, meno ancora caratterizzare il ‘virus’. Attraverso quali mezzi Montagnier venne a conoscenza che qualcuno aveva anticorpi contro le proteine di un virus e che le proteine con le quali gli anticorpi reagiscono sono virali? E’ una impossibilità scientifica che qualcuno abbia anticorpi contro un virus e, allo stesso tempo, che la banda 1,16g/ml contenga proteine dello stesso virus, prima che sia stata provata la sua esistenza.

 


 

A24. 1. E’ vero che Montagnier aveva gruppi di controllo, ma essi non erano adeguati. Montagnier ed i suoi colleghi fecero reagire le proteine che marcavano una banda a 1,16g/ml coi sieri di due pazienti omosessuali con linfoadenopatia. Si sapeva che i pazienti con l’AIDS, e quelli a rischio, hanno una pletora di anticorpi, tutti con un potenziale di reattività incrociata. Di conseguenza, ci si sarebbe aspettato che Montagnier et al avessero impiegato come gruppo di controllo soggetti malati che non avevano l’AIDS o il pre-AIDS e che non erano a rischio di AIDS, ma che avevano una pletora di anticorpi, tutti con un potenziale di reattività incrociata. Invece, i loro soggetti di controllo erano due donatori di sangue il cui stato di salute era caratterizzato da bassi livelli di anticorpi.

 


 

2. Montagnier et al non ottennero prova di ‘una reazione specifica’. I sieri dai pazienti e dai donatori furono fatti reagire sia col ‘virus purificato’, cioè la banda 1,16g/ml, sia con estratti dalle cellule ‘infettate’.  Nelle loro strisce pubblicate, con ‘virus purificati’, non è possibile distinguere alcuna proteina reagente con qualsiasi siero. Nel testo loro affermano: ‘Quando fu analizzato il virus purificato e marcato [la banda 1,16g/ml] dal paziente 1…sono state viste tre proteine importanti; la proteina p25 e proteine con peso molecolare di 80.000 e 45.000’. Tali reazioni non sono state riferite quando furono adoperati isieri dei donatori. Nelle strisce pubblicate con estratti dalle ‘cellule infettate’, è ovvio che diverse proteine reagirono con i sieri sia dei pazienti sia dei donatori di sangue sani. Un anno dopo Montagnier ed i suoi colleghi confermarono che ‘i sieri di alcuni dei pazienti con l’AIDS legarono molte proteine cellulari…


Questa marcatura in bande fu evidente nel RIPA e furono considerati positivi solo i sieri che precipitarono specificamente la p25’. In altre parole, per qualche ragione sconosciuta, conclusero che fra tutte le proteine reagenti, solo la p24 (la loro p25) era retrovirale, e fra tutti gli anticorpi, solamente quello che reagì con la p24 fu indirizzato contro il retrovirus. Anche se si considera specifica la reazione tra la p24 che marca una banda a 1,16g/ml e l’anticorpo presente nei sieri, cioè, non dovuta a reattività incrociata, da una reazione del genere è impossibile trarre la conclusione che la p24 è una proteina retrovirale e che l’anticorpo è causato (come conseguenza) dall’infezione di questo retrovirus. Infatti, dato che Montagnier et al non riuscirono nemmeno a individuare particelle che sembrano retrovirus a 1,16g/ml, le loro conclusioni riguardo la p24 e l’anticorpo che reagisce con essa è completamente irragionevole a livello scientifico.

 


 

A25. 1. Nessun anticorpo, nemmeno gli anticorpi monoclonali, sono ‘molto specifici’ o addirittura specifici.(78-84) Infatti, ci sono casi dove ‘un antigene a reazione incrociata si lega con un’affinità maggiore del medesimo antigene omologo… Il fatto più ovvio riguardo le reazioni incrociate degli anticorpi monoclonali è che sono caratteristici di tutte le molecole e non possono essere eliminati attraverso l’assorbimento senza eliminare tutta la reattività…Anche gli antigeni che differiscono per la maggior parte della loro struttura possono condividere un fattore determinante, e un anticorpo monoclonale che riconosce questo punto darebbe allora una reazione incrociata del 100%. Un esempio è la reazione degli autoanticorpi nel lupus, sia col DNA, sia con la cardiolipina’.(80)

 


 

Tuttavia, ‘Dovrebbe essere sottolineato il fatto che condividere un ‘fattore determinante’ non significa che gli antigeni contengono strutture chimiche identiche, ma piuttosto che loro hanno una somiglianza chimica che potrebbe non essere ben capita, ad esempio, una distribuzione di cariche sulla superficie’.(80) [E’ importante notare che gli esperti dell’’HIV’ ammettono che la ‘reattività incrociata’ sia la causa della reattività anticorpale ‘indeterminata’ riscontrata nel Western blot dell’’HIV’, così come, ad esempio, la reattività tra gli anticorpi monoclonali alla proteina p18 dell’’HIV’ e le cellule dendritiche nei tessuti linfatici di una varietà di pazienti che hanno un numero di malattie non correlate con l’AIDS (85) ed i tessuti normali, presi dai soggetti ‘non infettati dall’’HIV’.(86)] Affinché ci si convinca che tutti gli ‘anticorpi [compresi quelli monoclonali] sono polispecifici, cioè, che sono capaci di reagire con diversi antigeni dissimili, come ad esempio: proteine, acidi nucleici e apteni’, ‘sono capaci di reagire con più antigeni di quelli propri o non propri, spesso senza alcuna somiglianza antigenica apparente’, tutto ciò che dobbiamo fare è leggere le pubblicazioni scientifiche dei ricercatori dell’Istituto Pasteur, come ad esempio Stratis Avrameas.(83-87)

 


 

2. Non si può concludere che una proteina che marca una banda a 1,16g/ml sia virale solamente perché reagisce con un anticorpo presente nei sieri del paziente, anche se in qualche maniera si sa che gli anticorpi presenti nei sieri sono monoclonali. Ipotizziamo una situazione ideale dove: (a) tutti gli anticorpi presenti nei sieri del paziente sono monoclonali e ‘molto specifici’; (b) la banda 1,16g/ml contiene, in aggiunta alle diverse proteine non rappresentate e alle microvescicole, anche proteine rappresentate di origine cellulare e forse di origine batterica, fungina e virale (costituenti dei diversi agenti infettivi, diversi dai retrovirus, presenti nella coltura e nei pazienti) e, come dimostrato in uno studio franco-tedesco del 1997, un numero di particelle che somigliano ai retrovirus. Anche in questa situazione ideale, NON E’ POSSIBILE AFFERMARE che, solo perché una proteina come ad esempio la p24, la p41, o altre siano riscontrate in questa banda e reagisca con i sieri, la proteina è una componente delle particelle simili ai retrovirus.

 


 

3. La realtà è che:


  • (a) tutti i pazienti con l’AIDS e quelli a rischio hanno una pletora di anticorpi compresi gli autoanticorpi. Gli autoanticorpi comprendono gli antilinfociti, e come Montagnier ed i suoi colleghi hanno dimostrato,88 anticorpi antiactina e antimiosina, cioè, anticorpi contro l’actina e la miosina, le due proteine cellulari onnipresenti;

  • (b) tutti gli anticorpi presenti nei sieri hanno il potenziale di reattività incrociata;

  • (c) le proteine del supernatante dei linfociti non infettati, che nelle bande dei gradienti di densità del saccarosio a 1,16g/ml, cioe’,  il finto virus, comprende proteine che hanno gli stessi pesi molecolari delle proteine dell’’HIV’;89

  • (d) gli animali che sono stati inoculati col finto virus sviluppano anticorpi che reagiscono con le proteine ‘SIV’, un ‘retrovirus’ le cui proteine condividono gli stessi pesi molecolari delle proteine dell’’HIV’ e si ritiene che sia il parente più vicino all’’HIV’;90

  • (e) i pazienti con l’AIDS e quelli a rischio sono ripetutamente soggetti a stimoli allogenici, compresi i linfociti allogenici;

  • (f) fino al 1997, non esisteva nemmeno l’evidenza che dimostrasse che la banda 1,16g/ml contenesse particelle simili ai retrovirus. Data questa realtà, affermare che solo perché una proteina marchi bande a 1,16g/ml e che reagisca con anticorpi presenti nei sieri del paziente, nella migliore delle ipotesi, non differisce da quanto segue:

  • (i) Un ricercatore ha due ciotole, una delle quali contiene una miscela di uova crude, alcune note e forse alcune sconosciute, e forse un po’ di latte derivato da alcuni animali. L’altro contiene alcuni acidi. Un’altra volta, alcuni conosciuti e forse alcuni sconosciuti. Una volta che vengono miscelati i contenuti delle due ciotole, ottiene un precipitato. Afferma che il precipitato prova l’esistenza nella ciotola di latte da un animale previamente sconosciuto e un acido sconosciuto e che la reazione è tra l’acido sconosciuto e una proteina del latte precedentemente sconosciuto.

  • (ii) Questa affermazione è scientificamente impossibile poiché qualsiasi proteina nelle uova avrebbe potuto reagire con qualsiasi acido, per produrre il precipitato osservato.

Di conseguenza, data la realtà come delineata sopra da (a) a (f), è completamente non scientifico affermare che la reazione tra proteine che marcano una banda tra 1,16g/ml e reagiscono con anticorpi presenti nei sieri del paziente è prova dell’esistenza dell’’HIV’. Il fatto di affermare che la reazione tra le proteine che marcano bande a 1,16g/ml (in assenza di evidenza che la banda contenga nemmeno particelle simili ai retrovirus) con anticorpi presenti nei sieri indica, non solo che la banda contiene proteine retrovirali, ma che contiene proteine di un nuovo retrovirus, non differisce da quanto segue: Un pescatore, che ha creature marine ma nessun pesce in una rete, butta alcuni animali nella rete. Il pescatore osserva che gli animali mangiano alcune proteine presenti nella rete e afferma che le proteine non erano solo proteine dei pesci, ma erano proteine di un pesce completamente nuovo, un pesce che nessuno ha visto prima: un pesce d’oro.

 


 

A26. 1. Non è possibile, sia per Montagnier sia per Gallo, che abbiano ‘ragione ragionevolmente’. Entrambi fecero reagire la banda 1,16g/ml con i sieri dei pazienti. Indipendentemente dal metodo impiegato per individuare la reazione (RIPA p WB) e, dal numero di reazioni eseguite, avrebbero dovuto riscontrare le stesse proteine reagenti.

 


 

2. Nel loro studio del 1983, Montagnier ed i suoi colleghi trovarono tre proteine, la p25, la p45 e la p80. Riguardo la p45 scrissero: ‘La proteina 45K può essere dovuta alla contaminazione del virus attraverso l’actina cellulare che era presente negli immunoprecipitati di tutti gli estratti cellulari’. In uno studio pubblicato nel 1984, avevano ‘una prominente p25, una p18, una proteina a basso peso molecolare in fondo al gel (p12), e tre proteine ad elevato peso molecolare (43.000, 53.000, 68.000). La banda a 43.000 può includere una componente di origine cellulare, poiché fu riscontrata anche in un preparato simile composto dalle cellule non infettate di controllo’.

 


 

3. Poiché i sieri, sia dei pazienti sia dei donatori del sangue sani reagirono ripetutamente con la proteina p45/p43 proveniente, sia da cellule infettate, che non infettate, ci si potrebbe aspettare che anche Gallo abbia individuato questa proteina. Tuttavia, né Gallo né nessun altro da quel momento riferì una banda del genere, indipendentemente dal metodo impiegato per individuare la reazione antigene/anticorpo. La discrepanza può essere risolta se uno prende in considerazione il fatto che la migrazione di proteine su una striscia elettroforetica, in aggiunta al peso molecolare, può essere influenzata anche da altri fattori, ad esempio dalla carica che porta la proteina. Perciò, la medesima proteina può sembrare di avere un peso molecolare leggermente differente, qualora venga individuata dal RIPA o dal WB. Ad esempio, al presente, sia la p25 individuata da Montagnier, sia la p24 individuata da Gallo, vengono considerate la stessa proteina p24 dell’’HIV’.

 


 

4. Il peso molecolare dell’actina non è né 45.000 né 43.000 ma 41.000. Al presente esiste una ampia evidenza che la banda 1,16g/ml, cioe’,  l’’HIV puro’ contiene actina cellulare (91-94) e, come è stato già menzionato, Montagnier stesso dimostrò che i sieri dei pazienti di AIDS e quelli a rischio contengono anticorpi che reagiscono con l’actina. In altre parole, quando la banda di 1,16g/ml è fatta reagire con i sieri dei pazienti, indipendentemente dalla presenza dell’’HIV’, una banda p41 (p45/43) deve essere presente, e rappresenta l’actina cellulare. (Se Montagnier adesso crede che la p41 è una proteina dell’’HIV’, perché continua ad escludere questa banda dai suoi criteri per un Western blot positivo?(95)

 


 

A27. La proteina p24 non è sufficiente per diagnosticare l’infezione da ‘HIV’, perché non è specifica. In realtà, non è stato riferito che nessun’altra proteina ‘HIV’, nemmeno la p41 (p45/43), ha reagito più spesso con sieri da soggetti sani (che non sono a rischio di AIDS). Nemmeno è stato riscontrato che un anticorpo monoclonale abbia reagito a qualsiasi delle altre proteine dell’’HIV’ più spesso con proteine presenti nelle colture non ‘infette’ o sieri da soggetti che non sono a rischio di AIDS. Secondo Montagnier perché: (a) ‘queste sono proteine cellulari che troviamo ovunque – c’è un rumore di fondo non specifico’; (b) una proteina del genere, che ha un peso molecolare di 45/43, è l’actina; (c) questa proteina reagì con sieri di soggetti che non sono a rischio di AIDS; la p45/43 rappresenta una proteina cellulare ma non virale. Tuttavia, poiché: (i) la miosina è tanto onnipresente quanto l’actina. (ii) la miosina ha una catena leggera con un peso molecolare di 24.000. (iii) le proteine del citoscheletro (delle quali l’actina e la miosina sono le più abbondanti) sono state riscontrate nell‘HIV puro’.(91-94) In realtà, la miosina e l’actina vengono ritenute svolgere un ruolo cruciale nella gemmazione e rilascio delle particelle dell’’HIV’.(91) (iv) Montagnier ha dimostrato che i pazienti con l’AIDS, e a rischio di AIDS, hanno anticorpi antimiosina. Perché non dovremmo considerare la banda p24 come rappresentativa della miosina?

 


 

A28. Siamo d’accordo che nessuna proteina è sufficiente per diagnosticare l’infezione da ‘HIV’. Allora il problema, come è oggi, non era ‘sapere se era un HTLV o no’, ma se era retrovirale o no. Non tutto quello che non è HTLV è retrovirale.

 


 

A29. 1. Fino a oggi, non esiste prova che qualsiasi delle proteine che marcano banda a 1,16g/ml sono proteine dell’’HIV’. L’unica ragione per cui il 20% delle proteine che marcano banda a 1,16g/ml sono ritenute ‘HIV’ è che viene riscontrato che questa frazione di proteine reagisce con i sieri differenti del paziente di AIDS una volta o l’altra.

 


 

2. Siamo d’accordo che, con la tecnica impiegata dal gruppo di Montagnier, non si possono provare quali proteine (o acidi nucleici) sono cellulari e quali sono virali.

 


 

3. Siamo d’accordo. L’unico modo con cui può essere provata l’esistenza di proteina virale (acidi nucleici) è tramite la ‘purificazione del virus al massimo’, cioè, mediante l’ottenimento di gradienti di densità che contengono solamente particelle con le caratteristiche morfologiche dei retrovirus e nient’altro. Ciò non è stato mai fatto per provare l’esistenza delle proteine e acidi nucleici dell’’HIV’.

 


 

4. Se si ‘inciampa sempre sulle stesse proteine’ nei gradienti successivi, non è prova che quelle proteine siano virali e che quelle che spariscono siano cellulari.

 


 

A30. 1. Non importa quante volte la marcatura di bande venga ripetuta, se si inizia con nessuna particella simile ai retrovirus, si finisce con nessuna particella del genere. Alle volte, tramite marcature di bande successive, si potrebbero eliminare i componenti non retrovirali per ottenere una banda che contiene nient’altro che particelle con caratteristiche morfologiche dei retrovirus. Tuttavia, per riuscire a farlo, anche dopo la prima marcatura di bande, si deve cominciare con una proporzione relativamente elevata di particelle simili ai retrovirus.

 


 

2. Un’altra volta, l’origine delle proteine non può essere determinata dall’analisi molecolare, cioè, tramite il sequenziamento delle proteine.

 


 

3. Siamo d’accordo che, se le proteine di un retrovirus sono codificate dal suo genoma, come di solito viene accettato, allora potrebbe essere possibile caratterizzare le proteine retrovirali dal loro genoma. Tuttavia, per fare questo, si deve provare prima che l’RNA (cDNA) è una componente di una particella retrovirale. Ciò non è stato fatto per il genoma dell’’HIV’. In realtà, anche oggi, non esiste prova che l’RNA dell’’HIV’ sia una componente della particella, di qualsiasi particella, sia virale che non virale.

 


 

4. Fino a oggi, non c’è prova della relazione tra le sequenze nell’RNA dell’’HIV’ (DNA) e le sequenze nelle proteine ‘osservate con immunoprecipitazione o con l’elettroforesi  a gel’. In realtà, non esiste nemmeno una relazione tra la dimensione delle proteine codificate dai geni dell’’HIV’ e la dimensione delle proteine ‘osservate con l’immunoprecipitazione o con l’elettroforesi a gel’. Ad esempio, nel 1987, Gallo ed i suoi colleghi eseguirono un’‘analisi col computer’ delle ‘sequenze aminoacidiche dei complessi proteici dell’involucro derivati dalle sequenze di acido nucleico di sette isolati del virus dell’AIDS’, e conclusero che ‘dal calcolo, la gp41 dovrebbe essere da 52 a 54 dalton’.(96)

 


 

5. Uno dei tanti aspetti stupefacenti dell’’HIV’ è quanto segue: (a) Gli esperti dell’’HIV’ sono d’accordo che nemmeno due ‘HIV’ hanno le stesse sequenze genomiche e la differenza potrebbe raggiungere fino il 40%;(67) (b) Loro ammettono inoltre che la stragrande maggioranza (99,9%) dei genomi dell’’HIV’ è difettosa, cioè, manca o parte di un gene(geni) o il gene (geni) completo. Allora come è possibile: (i) misurare la carica virale (‘il DNA dell’’HIV) e la carica virale (‘l’RNA dell’HIV’) attraverso l’uso delle medesime sonde di ibridizzazione e primer della PCR? (ii) eseguire test anticorpali mediante l’impiego di kit che contengono gli stessi antigeni per tutti i diversi ‘HIV’?

 


 

6. In realtà, la storia di come i ricercatori dell’’HIV’ hanno tentato di provare l’esistenza della p120 e come loro convenirono eventualmente sulla sua esistenza è molto interessante e informativo.32 Comunque, dato il fatto che la proteina p120 viene ritenuta di essere presente solo nelle protuberanze, non è stata riferita finora nessuna particella dell’’HIV’ priva di cellule che ha protuberanze. Di conseguenza, né le particelle nel supernatante della coltura, né il virus ‘puro’ avranno la gp120. In altre parole, è impossibile, sia per le striscie RIPA, sia per quelle WB avere la proteina dell’’HIV’ con un peso molecolare di 120.000.

 


 

A31. Non si trova una prova del genere nella bibliografia pubblicata.

 


 

A32. 1. Prima del marzo del 1997 nessun gruppo di ricercatori dell’’HIV’ non aveva pubblicato nemmeno una singola microfotografia elettronica del materiale che marca alla densità di 1,16gm/ml in un gradiente di densità del saccarosio. La prima EM del materiale marcato a bande nei gradienti di densità del saccarosio comparve nel 1997 su due pubblicazioni, una franco-tedesca e l’altra proveniente dall’Istituto nazionale del cancro americano (NCI).(89) L’EM franco-tedesca è proveniente dal gradiente di densità del saccarosio di 1,16gm/ml, mentre non è possibile dire da quale densità derivino le risultanze dell’NCI. Le conclusioni di entrambi gli studi svelano che la stragrande maggioranza del materiale è ‘non virale’, virus ‘finto’, ‘microvescicole’ cellulari, cioè, il materiale marcato a bande è tutto virtualmente cellulare. Queste particelle, alla pari delle particelle retrovirali, contengono acidi nucleici in aggiunta a proteine che però non sono tanto condensate.

 


 

2. Le microfotografie EM in entrambi gli studi contengono anche una piccola quantità di particelle che hanno la morfologia che assomiglia più da vicino alle particelle retrovirali rispetto alle particelle ‘finte’. Entrambi i gruppi affermano che le particelle di minor numero sono l’’HIV’.

 


 

3. Nello studio dell’NCI non vengono date ragioni dell’affermazione che quelle particelle sono ‘HIV’. Gli autori dello studio franco-tedesco affermano che le particelle sono ‘HIV’ perché hanno: (a) ‘diametri di circa 110nm’; (b) un ‘core denso a forma di cono’; (c) ‘corpi laterali’; e perché nessuna particella del genere è stata vista nel materiale marcato a bande, proveniente dalle cellule di controllo non ‘infettate’. Tuttavia, secondo ricercatori retrovirali ben noti, come ad esempio Bader e Frank, un tipo di ‘particella oncovirale’ può trasformarsi in un’altra, e cori immaturi possono trasformarsi in ‘maturi’, soltanto tramite il cambiamento delle condizioni extracellulari.(11-97) Tuttavia, le condizioni di coltura nelle cellule ‘infettate’ e non infettate non erano le stesse. Tutti i retrovirus condividono due caratteristiche morfologiche: un diametro di 100-120nm e protuberanze di superficie. Nessuna di queste particelle sembra avere protuberanze e nessuna ha un diametro di meno di 120nm.


Il fatto di fare una media dei diametri maggiori e minori delle particelle indicate, dire che rappresentano l’’HIV’ e ipotizzare che tutte le particelle sono sferiche, dimostra che nello studio franco-tedesco le particelle sono 1,14 volte più grandi delle particelle retrovirali autentiche, e le particelle dell’NCI sono 1,96 volte più grandi. Queste risultanze si traducono in volumi che sono rispettivamente del 50% e del 750% più grandi. Poiché la densità è il rapporto della massa col volume, queste particelle devono avere in modo proporzionale masse più elevate. Dato il diametro massimo delle particelle retrovirali ed il fatto che siffatte particelle contengono una massa fissa di RNA e proteina, sembra insostenibile che le particelle che entrambi i gruppi considerano l’’HIV’ siano la stessa particella o siano particelle retrovirali. L’unica altra spiegazione per queste risultanze è che le microfotografie elettroniche non siano della banda 1,16gm/ml o che la marcatura della banda non fosse in equilibrio, nel qual caso si deve ridefinire la esuberante densità dei retrovirus.

 


 

Si ritiene che le particelle dell’’HIV’ abbiano un core virale a forma di cono, con corpi laterali densi in ciascun lato del core. Nessuna caratteristica del genere può essere vista nelle EM pubblicate su questi due studi. Perciò, per definizione, non si può ritenere che le particelle siano simili a un retrovirus.

 


 

Prendendo in considerazione che in entrambi gli studi le colture di controllo ‘non infette’ erano le cellule H9 ed il fatto che Gallo, nel lontano 1983, affermò che queste cellule erano infettate dall’HTLV-I, è un enigma che non siano state riscontratele particelle simili ai virus nel materiale marcato a bande proveniente da queste colture.

 


 

A33. Le fotografie dell’1,16g/ml sono di interesse significativo e profondo. Come si potrebbe altrimenti sapere che ci sono lì particelle simili ai retrovirus, specialmente perché anche Montagnier ammette che altre cose potrebbero marcare lì bande. Per qualsiasi scienziato che afferma la prova di isolamento, purificazione di un retrovirus, adoperando le marcature di banda di gradiente di densità del saccarosio, è vitale e assolutamente necessario ottenere microfotografie elettroniche della banda 1,16g/ml che mostri nient’altro che particelle simili ai retrovirus.

 


 

A34. Se le cose stessero così, perché non sono disponibili nella bibliografia scientifica tali risultanze?

 


 

A35. In uno dei loro articoli del 1984 (22) Montagnier ed i suoi colleghi scrissero: ‘Diverse caratteristiche indicano che i virus LAV o i virus correlati al LAV appartengono alla famiglia dei retrovirus. Sono state osservate particelle in gemmazione nella membrana plasmatica con la microscopia elettronica. La densità del virus nel gradiente di saccarosio è di 1,16 ed è stato riscontrato che l’attività di transcriptasi inversa, dipendente dal Mg2+, sia associata a dei virioni che contengono RNA’. Tuttavia, in questa intervista Montagnier ammette:


  • (a) ‘Pubblichiamo immagini di gemmazione che sono caratteristiche dei retrovirus. Avendo detto ciò, basandosi solo sulla morfologia, non si potrebbe dire che era veramente un retrovirus… Con le prime fotografie della gemmazione avrebbe potuto trattarsi di un virus di tipo C. Non si può distinguere… No…beh, dopo tutto, sì…potrebbe trattarsi di un altro virus in gemmazione’.

  • (b) alla densità del saccarosio di 1,16gm/ml. Montagnier ed i suoi colleghi, non solo non videro una particella da retrovirus, ma dissero ripetutamente che non videro particelle simili ai retrovirus; (c) anche se alla densità del saccarosio di 1,16gm/ml loro individuarono transcriptasi inversa del primer templato An.dT12-18 in presenza di Mg2+, non avevano particelle, perciò non avevano evidenza che l’’attività di transcriptasi inversa riscontrata fosse associata con i virioni che contengono RNA’.

 


 

Inoltre, in questo studio (22), dimostrarono che le polimerasi a DNA beta e gamma e quella delle cellule non infettate transcrivono An.dT (12-18) in presenza del Mg2+. Perciò, le condizioni e le risultanze di Montagnier non provano la sua affermazione che quanto lui ha ‘visto’ e ‘incontrato’ sia un retrovirus. Se l’’HIV’ ‘esiste’ ed è ‘chiaro’ per Montagnier che lui ‘lo ha visto’ e ‘lo ha incontrato’, dov’è la prova? *

 


 

Eleni Papadopulos-Eleopulos (1) Valendar F. Turner (2) John M. Papadimitriou (3)

Barry Page (1) & David Causer (1)


 

(1) Dipartimento di Fisica Medica, (2) Dipartimento di Medicina di Emergenza, Ospedale Royal Perth, Perth, Australia Occidentale; (3) Dipartimento di Patologia, Università di Australia Occidentale.

 


 

 

 

 


fonti e link correlati all’articolo di seguito


  • Stable changes in CD4+ T lymphocyte miRNA expression a… [Blood. 2012] – PubMed – NCBI
www.ncbi.nlm.nih.gov
PubMed comprises more than 23 million citations for biomedical literature from MEDLINE, life science journals, and online books. Citations may include links to full-text content from PubMed Central and publisher web sites.


  • microrna

  • http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22286198

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FILE e DOCUMENTO riguardante gli studi sul tema dell’ “HIV”

IN QUESTA SEZIONE POTRETE VISIONARE  DOCUMENTI SCIENTIFICI,IMMAGINI E FOTO, CHE RIPORTANO STUDI E AFFERMAZIONI DI MEDICI,RICERCATORI,PREMI NOBEL  IN MERITO AL TEMA DELL’ “HIV”.


 

 

robert_galllo

 

 


 

IMPORTANTE DOCUMENTO FRUTTO DELLO STUDIO DI MEDICI,RICERCATORI DICHIARAZIONI DI SCIENZIATI E PREMI NOBEL SUL TEMA DELL’ “HIV”

 


 

Il 23 aprile 1984 il dr. Robert Gallo affermò in una conferenza stampa con l’allora segretaria del Ministero della Salute statunitense Margaret Heckler che:
“la probabile causa dell’AIDS era stata individuata, è un virus chiamato HTLV-3 (oggi chiamato HIV); contiamo di avere un vaccino pronto entro 2 anni”.
Tale conferenza venne effettuata prima che Gallo sottoponesse la sua ricerca e i suoi esperimenti alla comunità scientifica per poterne verificare la validità. 24 ore dopo il primo “test” ipoteticamente destinato all’individuazione degli anticorpi del virus nel sangue umano era già stato brevettato ed era pronto per essere venduto in tutto il mondo.
I documenti ufficiali che “provano” questa “scoperta” sono riportati nelle due pagine seguenti….


 

    HIV documents 


 PRIMA DI ANDARE AVANTI NELL’ARGOMENTO,E’ IMPORTANTE LEGGERE QUANTO SEGUE…


 

 

«Lo stesso giorno della conferenza stampa, Gallo depositò il brevetto per il procedimento del test oggi conosciuto come “test per l’Aids” e, il giorno successivo, The New York Times tramutò la teoria di Gallo in una certezza, pubblicando notizie sensazionali sul “virus che causa l’Aids”.

Annunciando ai media la propria ipotesi senza produrre dei dati concreti, Gallo violò una regola fondamentale del procedimento scientifico. Innanzitutto, i ricercatori sono tenuti a far pubblicare  su un giornale medico o scientifico l’evidenza di un’ipotesi, documentando le ricerche o gli esperimenti condotti per formularla. Quindi, alcuni esperti esaminano e discutono l’ipotesi, tentando poi di ripetere gli esperimenti originari per confermare o smentire i risultati iniziali.


Ogni nuova ipotesi, prima di venir considerata una teoria plausibile, deve reggere all’esame minuzioso di specialisti in quello stesso ambito ed essere verificata tramite esperimenti ad esito favorevole.

Nel caso dell’Hiv, Gallo annunciò pubblicamente un’ipotesi non confermata e i media riportarono questa sua opinione come fosse un fatto accertato, incitando i funzionari del governo ad impegnarsi in un nuovo piano d’azione per la salute pubblica basato sull’idea, non comprovata,dell’esistenza di un virus dell’Aids.


 

La più importante delle regole standard per l’isolamento di un retrovirus in colture cellulari umane prevede la liberazione del materiale cellulare ottenuto nella coltura da tutte “le impurità”, a eccezione delle particelle retrovirali sospette, frutto della gemmazione dalle membrane dopo la stimolazione della coltura cellulare (budding). Queste particelle, presunti retrovirus, devono essere separate dal liquido cellulare tramite centrifugazione ad altissima velocità e quindi catturate in una soluzione di glucosio. Basandosi su ricerche sperimentali, era ben noto che in questa procedura i retrovirus si raccolgono nella soluzione di glucosio ad una certa profondità in forma di gradiente di densità. La tecnologia di laboratorio prevede una misura di 1,16 gm/ml.


 

  • Molecole, frammenti di cellule, particelle virali e non virali del liquido cellulare centrifugato di diverse colture si raccolgono in questo gradiente di densità, in quanto i componenti si distribuiscono nella soluzione di glucosio non in base al peso molecolare ma secondo la densità dei componenti. Per garantire quindi che le presunte particelle virali siano raccolte in corrispondenza del gradiente di densità di 1,16 gm/ml, è necessario applicare una procedura di purificazione e di  concentrazione, visto che solamente la raccolta delle particelle in corrispondenza del gradiente di densità consente di verificare se il diametro e il volume di queste particelle corrispondon effettivamente alle particelle retrovirali sospette, osservate al microscopio elettronico in fase di gemmazione dalla membrana cellulare (purificazione).

Le colture cellulari contengono numerose particelle non virali, con forma, aspetto e struttura tali da non permetterne la distinzione con ragionevole certezza dai veri retrovirus; perciò, dopo l’effettivo isolamento tramite purificazione, il contenuto delle particelle deve essere preparato biochimicamente. Con una procedura di routine della biologia molecolare, le proteine del guscio delle particelle, compresa la proteina enzimatica caratteristica dei retrovirus e gli acidi nucleici all’interno del guscio delle particelle, devono essere identificati con precisione.


 

Se le proteine e gli acidi nucleici nelle particelle isolate e purificate presentano una struttura identica e se gli acidi nucleici in queste particelle formano molecole di RNA invece del DNA, solo così c’è qualche probabilità che si tratti di particelle retrovirali delle cellule umane. Una prova certa dell’esistenza di un retrovirus nelle cellule umane è possibile solo se le molecole RNA in queste particelle costruiscono dei geni contenenti le istruzioni codificate per la biosintesi delle proteine contenute nelle particelle stesse, e se queste proteine possono effettivamente essere sintetizzate in maniera identica. Una volta disponibili queste certezze, non è ancora certo che   queste particelle retrovirali appartengano a virus esogeni, trasmettibili e infettivi.


Infatti si potrebbe trattare anche di retrovirus endogeni, identificati in una grande varietà nel genoma di  numerosi tipi di cellule umane, e che non sono affatto infettivi. Per una differenziazione fra retrovirus esogeni ed endogeni nelle cellule umane, i retrovirus effettivamente isolati e caratterizzati biochimicamente devono essere trasmessi a colture cellulari umane, presentare nuovamente la gemmazione dalle cellule, essere nuovamente isolati e purificati, deve essere confermato l’isolamento tramite fotografie al microscopio elettronico, deve essere dimostrata l’identità biochimica delle proteine e degli acidi nucleici e l’RNA delle particelle deve essere un genoma codificato per la sintesi proteica specifica delle particelle retro virali.


 

Verso la metà del 1983, l’ipotesi irrazionale della “letale epidemia sessuale dell’Aids” era già stata programmata nella psicologia di massa, sulla base di qualche centinaio di casi dal 1978 fra gli omosessuali passivi con prolungata inalazione di nitriti e anni di abuso di antibiotici. In stretta cooperazione fra specialisti di laboratorio della ricerca oncologica retrovirale, le autorità sanitarie statali e i mass media, nel 1983 era già stato deciso che la malattia dell’Aids dovesse essere la conseguenza di un nuovo “agente patogeno” e di una “letale epidemia trasmessa con il sesso e il sangue”.


Si trattava solamente di decidere a chi la “mano invisibile del mercato” avrebbe concesso la commercializzazione a livello mondiale dei kit diagnostici. La squadra di Gallo con ogni evidenza doveva guadagnare tempo per individuare il trucco di laboratorio decisivo che permettesse di isolare una quantità sufficiente di “Hiv” per produrre le “proteine Hiv” in numero sufficiente per i test di massa. La “produzione di Hiv” in provetta non era sufficiente a questo scopo.


  • La richiesta di brevetto di Montagnier per un “test antiHiv” venne rifiutata negli Stati Uniti; la richiesta di brevetto dell’Istituto Nazionale del Cancro degli USA per il test di Gallo venne approvata in tempi record, prima ancora che lo stesso Gallo avesse pubblicato una sola riga sull’isolamento dell’ Hiv” e sullo sviluppo di un “test antiHiv” sulla base delle proteine dell’“Hiv” da lui isolato. Solo dopo anni di contenzioso giuridico fra gli Stati Uniti e la Francia, i diritti di brevetto per il “test antiHiv” furono riconosciuti a Gallo e Montagnier in occasione di un vertice fra l’allora presidente Reagan e l’allora sindaco di Parigi Chirac; in un gesto apparentemente nobile, questi diritti vennero conferiti alla Fondazione mondiale antiAids di cui Montagnier divenne presidente.

In realtà questa assurda controversia permetteva di distogliere l’attenzione dal problema vero: e cioè il fatto che né Gallo, né Montagnier avevano mai “isolato” un retrovirus umano e l’origine retrovirale delle proteine del “test Hiv” non era mai stata dimostrata. Per l’opinione pubblica mondiale, il fatto che due specialisti di famosi istituti di ricerca come l’Istituto Pasteur e l’Istituto Nazionale del Cancro degli USA combattessero per il riconoscimento degli onori della scoperta, doveva per forza significare che il “nemico numero uno dell’umanità” (presidente Reagan 1984) esisteva realmente e quindi doveva essere la causa della “più tremenda epidemia del XX secolo” (Gallo 1991) e il “test dell’Aids” doveva proteggere la popolazione mondiale da questa “epidemia di massa letale” .


Ma nel periodo dal 1983 al 1997, le immagini al microscopio elettronico dei componenti proteici del gradiente di densità non sono mai state pubblicate né da Montagnier e Gallo né da alcun altro retrovirologo. Le prime immagini al microscopio elettronico del gradiente di densità in fase di “isolamento dell’Hiv” sono state pubblicate da due gruppi di ricerca nel marzo 1997, vale a dire 14 anni dopo la prima pubblicazione del presunto “isolamento dell’Hiv” a cura di Gallo e Montagnier (Bess 1997, Gluschankof 1997).


A detta di uno dei pionieri della microscopia elettronica per il controllo dell’isolamento retrovirale in cellule di mammiferi, il professore di medicina De Harven, queste immagini al microscopio elettronico presentano “risultati disastrosi” (De Harven 1998a). Le prime immagini al microscopio elettronico, a comprova del materiale cellulare del gradiente di densità dopo “l’isolamento dell’Hiv” da cellule umane, mostrano “praticamente solo del materiale citologico” delle cellule umane nella coltura (Papadopulos-Eleopulos 1998a). Quindi, 14 anni dopo il presunto “primo isolamento dell’Hiv” e 13 anni dopo l’applicazione del “test Hiv” viene messo in evidenza che i retrovirologi e oncologi Montagnier e Gallo avevano semplicemente simulato “l’isolamento dell’Hiv” e che le proteine alla base degli antigeni per il “test Hiv” non sono altro che proteine residuali e di scarto delle colture cellulari umane. Il risultato di “sieropositività” perciò non significa altro che la reazione di un livello di anticorpi naturale, seppure aumentato, nel siero dei probandi ».





leggete con molta attenzione IL DOCUMENTO RIPORTATO QUI,FRUTTO DI ANNI E ANNI DI STUDI DA PARTE DI RICERCATORI,SCIENZIATI,MEDICI e con la visione dei video posti in sezione “MEDICINA 360°” AVRETE UNA VISIONE COMPLETA DELL’ARGOMENTO,BUONA LETTURA…

 

LA  SIEROPOSITIVITA’  NON INDICA UN’INFEZIONE

CENNI DI VIROLOGIA 

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L’idea che un test Hiv positivo indichi un’infezione cronica, progressiva e mortale è sicuramente la più radicata nell’immaginario psichico sociale a causa dell’abile e diabolico battage mediatico perpetuato per decenni da scienziati governativi statunitensi e, sorprendentemente, da star hollywoodiane improvvisamente divenute specialiste (profumatamente pagate) in materie sanitarie.


Parafrasando Jules Romain e il suo dr. Knock:
“ogni uomo sano è un malato inconsapevole”


CENNI STORICI DI VIROLOGIA


In tutta la storia della virologia, l’isolamento di un virus e la dimostrazione di un suo legame causale con una determinata patologia furono spesso il risultato di esperimenti effettuati in laboratorio su colture cellulari. Non vennero mai effettuati degli isolamenti diretti a partire dai malati con una prova diretta della malattia e della contagiosità.
Bisogna infatti risalire alle origini della virologia più antica per trovare degli esempi di isolamento diretto, come per esempio nel caso del vaiolo.
Nel mentre vennero effettuati alcuni esempi di trasmissione tramite filtrati ultracellulari, grazie all’utilizzo di speciali filtri che permettevano chiaramente di scartare l’ipotesi secondo la quale la trasmissione di una malattia fosse dovuta a cellule o batteri, poiché le cellule viventi e i batteri sono infatti troppo voluminosi per passare attraverso i filtri. Questi esempi sono in effetti all’origine delle prime scoperte virologiche.

I metodi di filtrazione (chiamati spesso “ultrafiltrazione”) erano sufficientemente raffinati per permettere una valutazione approssimativa della dimensione delle particelle “virali” che erano gli agenti di trasmissione dell’infezione, agenti chiamati “principi filtranti”, semplicemente per sottolineare il fatto che queste particelle erano abbastanza piccole da passare attraverso i filtri utilizzati in laboratorio.
Queste indicazioni approssimative sulle dimensioni dei virus suggerivano che la maggior parte di essi misurava probabilmente 0,1 o 0,2 micron, talmente piccoli da non poter essere osservati al microscopio ottico. Bisogna quindi attendere la scoperta del microscopio elettronico, dotato di una risoluzione cento volte più elevata rispetto a quello ottico, per riuscire a visualizzare direttamente i virus e potere quindi misurare in modo preciso il loro diametro.
Ma tutto ciò non impedì a Peyton Rous di dimostrare, nel 1911 all’Istituto Rockfeller di New York, tramite semplici e dirette tecniche di ultrafiltrazione, la trasmissione per “ultrafiltrazione acellulare” di un cancro del pollo. Egli arrivò quindi a postulare, senza mai averlo visto ma con eccellenti motivazioni scientifiche, l’esistenza e il potere cancerogeno del virus che porta il suo nome.


Quarant’anni più tardi, Charlotte Friend utilizzò la stessa tecnologia di ultrafiltrazione per dimostrare l’esistenza di un altro virus che causa la leucemia in certi tipi di topi. Due anni più tardi la tecnologia del microscopio elettronico permise a Etienne de Harven di visualizzare il virus della  leucemia dei topi, il “virus Friend”.


Questa premessa è essenziale in riferimento al tema dell’Hiv, poiché sia il virus di Rous che quello di Friend sono entrambi retrovirus, esattamente come il presunto Hiv, che però è invisibile al microscopio elettronico.
Nella virologia moderna la base delle tecniche di isolamento si fonda su tecniche di colture cellulari eseguite in laboratorio; il microscopio elettronico permette in seguito di:
1) Caratterizzare la struttura e le dimensioni esatte dei virus;
2) La loro classificazione nel quadro generale della virologia.
Non sorprende quindi che presso l’Istituto Pasteur nel 1983, il presunto annuncio dell’isolamento dell’Hiv dipendeva essenzialmente da una magistrale combinazione di metodi di coltura cellulare e di microscopio elettronico.
E’ proprio a partire da colture cellulari molto complesse e iperstimolate (con aggiunta di sostanze mitogene quali l’idrocortisone la PHA, già da sole in grado di indurre la Transcriptasi inversa e il fenomeno di “budding” cellulare”) che l’équipe dell’Istituto Pasteur ha creduto di poter annunciare la scoperta di un agente virale che “potrebbe essere implicato nella causa dell’Aids”; ed è sempre a partire da queste colture cellulari, definite da Luc Montagnier stesso come delle vere “zuppe di retrovirus”, che si iniziarono a definire delle proteine che vennero poi attribuite a questo virus in modo del tutto arbitrario.


In effetti, poiché all’epoca (e nemmeno in seguito) il presunto Hiv venne mai isolato né tantomeno purificato, non esiste motivazione ragionevole per attribuirgli queste proteine trovate nelle colture cellulari utilizzate per questa pseudo-scoperta.


Esistono diversi tipi di test per la diagnosi di un’infezione virale:
-i test indiretti, che non identificano il virus ma la presenza nel corpo del paziente di anticorpi specifici prodotti dal suo sistema immunitario in reazione alla presenza del virus. Tali anticorpi vengono rilevati per mezzo delle tecniche immuno-enzimatiche (metodica ELISA/EIA), come quelle usate nella medicina di laboratorio dell’Aids sotto il nome di “test di sieropositività”;
-i test diretti, che permettono di evidenziare il virus o i suoi componenti (antigeni, genoma) tramite osservazione diretta al microscopio elettronico;
-i test basati sull’infezione di certe colture cellulari (in laboratorio).


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ANTIGENI E ANTICORPI


Gli antigeni costituiscono l’insieme delle molecole estranee al corpo che permettono la produzione degli anticorpi. Sotto questo termine generico sono raggruppati elementi organici e chimici diversi per misura e dimensione (batteri, virus, cellule, pollini, proteine varie…).
Fabbricati dai linfociti B, gli anticorpi sono proteine la cui funzione è quella di agganciarsi agli antigeni per marcarli, per permettere così alle cellule del sistema immunitario specializzate nell’eliminazione di questi antigeni di identificarli prima di distruggerli.


“Per ogni anticorpo il suo antigene” era una regola data per certa fino a quando ci si rese conto che gli anticorpi potevano spesso mancare il bersaglio e marcare degli antigeni ai quali non erano destinati. Lo stesso anticorpo può dunque marcare diversi tipi di antigene, ma lo stesso antigene può a sua volta essere marcato da diverse varietà di anticorpi. Questa viene chiamata “reazione incrociata”.
Tutta l’immunologia si basa su questi concetti di antigene e anticorpo.
Il problema maggiore è che queste due parole hanno delle definizioni reciproche: non si può definire un antigene senza parlare di anticorpo e viceversa. Il problema dell’immunologia è quindi proprio quello di basarsi su due termini che si definiscono reciprocamente.


LE PROTEINE VIRALI

Per caratterizzare un virus, i virologi di oggi utilizzano le metodiche di ingegneria genetica e biologia molecolare, inclusi i cosiddetti “marker biochimici”. Il controllo indispensabile e diretto al microscopio elettronico è sempre più trascurato.
Questi marker costituiscono, teoricamente, la “carta d’identità” molecolare del virus. Poiché i differenti gruppi di ricerca non sono mai riusciti a trovare le stesse proteine antigeniche nelle loro colture cellulari, ci sono voluti anni affinchè si trovasse uno pseudo-consenso forzato e si decidesse senza alcun evidenza scientifica che circa una decina di proteine fossero tipiche e caratteristiche dell’Hiv. La presenza di tali proteine è stata tra l’altro valutata solo ed esclusivamente nelle colture cellulari e mai direttamente nel corpo umano.


Che ne è dunque della loro presunta specificità? Basandosi sull’evidenza dei fatti, questa specificità semplicemente non esiste. Non essendo mai stato purificato l’Hiv, la natura virale delle proteine è una semplice utopia. Al contrario, alcune di queste proteine corrispondono a degli elementi che non hanno nulla a che vedere con un virus. Per esempio, la proteina chiamata p24 corrisponde al peso molecolare della miosina; la p41 a quello dell’actina. Sia l’actina che la miosina sono proteine essenziali delle cellule muscolari che si trovano naturalmente nel corpo. Nel 1990 venne inoltre pubblicato su Cancer Research uno studio in cui si dimostrava che la metà di 144 cani testati presentavano anticorpi contro uno o più degli antigeni attribuiti all’Hiv. I cani sviluppano per caso l’Aids?


L’AFFIDABILITA’ DEI TEST DIAGNOSTICI


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I test sierodiagnostici sono destinati ad individuare la presenza di anticorpi nei liquidi biologici, generalmente nel siero del sangue in cui questi anticorpi sono distribuiti.
Le tecniche utilizzate, anche se differenti, partono tutte dallo stesso principio: individuare una reazione tra gli antigeni del microbo e gli anticorpi del paziente diretti contro questi antigeni. Le persone che desiderano conoscere il proprio stato sierologico vengono sottoposte in primis ad un test di “valutazione” tra i quali l’Elisa è il più diffuso. Semplice e poco costoso, è ritenuto di eccellente sensibilità, ovvero capace di individuare con precisione la presenza di anticorpi nelle persone “infette”.
Se questo primo test è positivo, viene ripetuto una seconda volta. Se anche il secondo è positivo, verrà effettuato un altro test detto “di conferma”, generalmente di tipo Western Blot (elettroforesi su gel), che dovrebbe avere una elevata specificità, ovvero dovrebbe riuscire a individuare con precisione l’assenza di anticorpi in soggetti “non infetti”.
Prima di essere immessi sul mercato, anche questi test vengono testati. E qui si presenta il problema principale poiché questi test sono stati valutati in condizioni alquanto bizzarre, ovvero l’assenza di un gold standard:
-come abbiamo appena detto infatti, non esiste alcuna prova che le proteine antigeniche selezionate provengano da un virus chiamato Hiv;
-inoltre, il fenomeno delle reazioni crociate non permette di affermare che gli anticorpi che reagiscono siano specifici per gli antigeni presenti nel test;
-infine, gli studi realizzati dalle ditte produttrici per validare i loro test non sono scientificamente accettabili.

In effetti, per poter pretendere di annunciare la sensibilità di un “test Hiv”, questo andrebbe valutato su una popolazione quanto più vasta possibile di soggetti di cui si abbia la certezza che siano portatori del virus. Ora, essendo l’Hiv non rilevabile anche nei malati di Aids conclamati, queste prove non sono ovviamente mai state fornite.
E ancora: la ricerca della specificità si effettua a partire da una popolazione di cui si abbia certezza, con le prove alla mano, che non abbia mai incontrato il virus. Per la stessa ragione di cui sopra, tale prova non è mai stata fornita né pubblicata.
Il test Western Blot comprende 10 bande antigeniche corrispondenti alle 10 proteine ritenute specifiche e uniche dell’Hiv. Sorvolando sul fatto che il numero di bande richiesto per confermare la sieropositività varia non solo da paese a paese ma anche da un’azienda produttrice del test all’altra, bisogna chiedersi, data la presunta specificità per l’Hiv di queste 10 proteine:
1) Come mai sono necessarie almeno da due a quattro bande quando una sola (visto che tutte le 10 proteine sono spacciate come uniche e specifiche di Hiv) dovrebbe essere sufficiente per permettere di diagnosticare la presenza del virus?
2) Come mai solo due o quattro bande sono necessarie, visto che la presenza del virus dovrebbe necessariamente implicare la presenza di tutte le 10 proteine che gli vengono attribuite, e quindi la reazione di tutte le 10 bande del test?

LA “CARICA VIRALE”

Il concetto di “carica virale” è stato introdotto negli USA dal dottor David Ho, tra l’altro promotore della terapia combinata (o “cocktail”), che sperava così di fornire una spiegazione al fatto misterioso che nessuno riuscisse a trovare l’Hiv direttamente nel corpo di un paziente.
Questo bizzarro personaggio mediatico (eletto “uomo dell’anno” dalla rivista Time) propose quindi che il virus fosse in grado di rendersi “invisibile” ma che si poteva tuttavia trovarne traccia grazie alla tecnica PCR (reazione a catena della polimerasi), che è una procedura di moltiplicazione (e non
di identificazione) del DNA. Nel 1997, David Ho e i suoi collaboratori trattarono un gruppo di 20 pazienti con una biterapia che associava l’AZT con un inibitore delle proteasi. Dall’inizio della terapia, la “carica virale” di questi pazienti calò ad un livello “non rilevabile”. Questo risultato venne presentato come evidenza che tale terapia combinata fosse efficace.
Secondo gli scienziati ortodossi stessi, almeno il 99,8% delle particelle misurate dal test di carica virale non è infettivo.
E allora da dove arrivano queste particelle?
E’ evidente che, non essendo l’Hiv mai stato osservato al microscopio elettronico, la quantità di DNA/RNA rilevato nei test di carica virale proviene da numerosi detriti cellulari presenti nel sangue e non da un virus che nessuno al mondo ha mai visto. Questo spiega anche il fatto, scientificamente aberrante, che non esista un codice genetico attribuito ad Hiv che sia lo stesso non solo da un paziente all’altro, ma addirittura nello stesso paziente in momenti diversi. Questo è facilmente spiegabile poiché i detriti cellulari variano in continuazione e non hanno di conseguenza sempre lo stesso codice genetico, misurato con la tecnica PCR.
E’ scientificamente stabilito che il genoma umano contiene circa il 2% di sequenze di origine retrovirale.

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La presenza di frammenti di cromosomi cellulari nei campioni spiega dunque facilmente la presunta “carica virale”, senza che ciò abbia alcun rapporto con l’ipotetica presenza di particelle di “Hiv” nel sangue.

Se una persona fosse veramente infettata non ci sarebbe bisogno di ricorrere alla PCR per vedere il virus: sarebbe sufficiente il microscopio elettronico per osservarlo in grande quantità. Per esempio, per trovare traccia del cosiddetto Hiv nel latte materno vengono effettuati 45 cicli consecutivi di PCR, il che significa un’amplificazione di 35 milioni di volte.
Solo quando la purificazione virale è correttamente ottenuta e confermata al microscopio elettronico, è in seguito possibile isolarne a livello biochimico le molecole (proteine, enzimi, acidi nucleici) la cui natura virale è garantita dalla purificazione originale. Solo ed unicamente in questo caso l’identificazione di un “marker molecolare” virale diviene sinonimo dell’identificazione del virus stesso. Senza purificazione, tutto ciò non è scientificamente sostenibile.

Luc Montagnier ha ammesso nel 1997 di non avere mai purificato il virus, proprio nello stesso anno in cui sulla prestigiosa rivista Virology due gruppi di ricerca tentarono per la prima volta di purificare l’introvabile Hiv: anche questo primo, unico e ultimo tentativo (tra l’altro come sempre effettuato su colture cellulari e non su un paziente) fu vano. Quando a Montagnier venne chiesto quale fosse lo scopo della purificazione virale egli rispose “che la purificazione serve per essere sicuri che ci si trovi davanti un vero virus”.
Per concludere, lo stesso inventore della tecnica PCR, il Premio Nobel per la chimica Kary Mullis, ha sempre messo in guardia la comunità scientifica dall’utilizzare la sua tecnica per identificare l’Hiv.

Mullis ne parlò anche nel suo discorso durante la cerimonia di premiazione in cui gli venne assegnato il Premio: tale discorso è il primo e unico a non esser mai stato pubblicato nella storia dei Nobel…
Purificazione virale al microcopio elettronico del virus Friend della leucemia.
Virology, 1997. Il tentativo di purificazione del presunto Hiv ha portato, secondo gli autori stessi, solo all’osservazione di “vescicole cellulari“. Ovvero detriti cellulari che non hanno nulla a che fare con un virus.

L’HIV—  CENNI DI ISOLAMENTO E PURIFICAZIONE RETROVIRALE 

Quando si cerca la verità, il miglior metodo di indagine è senza dubbio quello utilizzato dagli investigatori, ovvero cercare le prove e attenersi ad esse:
1- E’ fondamentale non lasciarsi ingannare dalle apparenze, che sono spesso fuorvianti.
2– Non fidarsi delle testimonianze di persone implicate più o meno da vicino nella questione, soprattutto se ci sono interessi economici o emotivi che rendono soggettiva la valutazione di qualcosa che deve rimanere oggettivo.
3– Cercare chi trae vantaggio dal crimine.
4– Verificare gli alibi delle persone coinvolte.
5– E soprattutto controllare punto per punto la presunta veridicità dei fatti.
Come verrà mostrato in questo articolo, applicando questo metodo per andare alla ricerca del “criminale misterioso” battezzato Hiv, le sorprese non mancano certo.

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LE APPARENZE INGANNANO

La miriade di scienziati che lavorano quotidianamente sull’Hiv, così come le migliaia di articoli scientifici pubblicati sull’argomento, hanno portato la reale prova dell’esistenza del virus? La risposta è: no!
In effetti, se si dedica il tempo necessario (e ne serve davvero molto) per consultare la letteratura scientifica relativa al virus propriamente detto, si rimane sorpresi dal fatto che nessuna di queste ricerche sia mai riuscita a mettere direttamente in evidenza la presenza anche solo di una minima particella virale, e in particolar modo retrovirale, in un malato di Aids.
Tuttavia le tecniche necessarie a tal fine sono classiche e semplici e sono state messe a punto molto prima delle tecniche di biologia o di genetica molecolare. Queste tecniche comportano l’isolamento diretto a partire dal malato e l’infezione delle cellule coltivate in laboratorio che sono suscettibili di essere infettate da un particolare virus.
La concentrazione dei virus tramite centrifugazione ad alta velocità, l’eliminazione dei batteri e dei detriti cellulari tramite ultrafiltrazione, e l’osservazione diretta delle particelle virali al microscopio elettronico sono alla base della virologia classica e della dimostrazione dell’origine virale di numerose malattie.

Visti al microscopio elettronico, tutti i virus sono uno diverso dall’altro. Le loro differenti famiglie (vaiolo, herpes, influenza, polio, etc…) hanno tutte morfologie proprie e specifiche. La classificazione delle differenti famiglie di virus è infatti basata principalmente sulla morfologia delle particelle virali. Per contro, in una stessa famiglia di virus, le particelle virali hanno
dimensioni e morfologia stabile e che quindi non lascia spazio ad alcun dubbio né ad alcuna confusione. Al microscopio elettronico è impossibile confondere un virus dell’herpes con quello del vaiolo, ad esempio.
I retrovirus sono stati isolati, purificati e fotografati al microscopio elettronico con estrema facilità fina dagli anni 60. Com’è possibile, dunque, che tali prove non esistano per quanto concerne il presunto Hiv?

LA SCOPERTA DEL VIRUS

E’ un’équipe dell’Istituto Pasteur diretta da Luc Montagnier la prima ad aver annunciato la scoperta di un’attività virale, nel 1983, a partire da prelievi effettuati su un malato di Aids.
L’anno successivo, l’équipe di Robert Gallo negli USA fece un annuncio simile. Si scoprirà in seguito che Gallo aveva utilizzato un campione di colture cellulari ricevute da Luc Montagnier mesi prima. Stranamente la stessa cosa è successa a Robin Weiss, il grande specialista dell’Aids britannico, che fu obbligato ad ammettere che anche lui aveva usato un campione delle colture cellulari di Montagnier. Possiamo quindi constatare che da una parte all’altra dell’Oceano, le tre équipe più specializzate sul tema, dopo più di due anni di ricerca, non sono riuscite ad annunciare nient’altro che una vaga supposizione a partire da colture cellulari derivanti da uno stesso paziente.
Attenendosi ai dati oggettivi, nessuna di queste équipe ha mai annunciato di aver isolato un nuovo virus causa dell’Aids. Non esiste in tutta la letteratura mondiale un solo articolo che concluda che un tale retrovirus sia stato isolato e che questo sia la causa dell’Aids.

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A PROPOSITO DI DOCUMENTAZIONE


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LA TRANSCRIPTASI INVERSA


Nel 1970, Howard-Martin Temin e David Baltimore annunciarono (contemporaneamente e indipendentemente) la scoperta di un nuovo enzima: la transcriptasi inversa. Gli verrà assegnato il premio Nobel per la medicina nel 1975 per questa scoperta


Che cos’ha questo nuovo enzima di rivoluzionario? Bisogna ricordare che il nucleo delle cellule contiene un messaggio genetico dell’individuo, un doppio filamento chiamato DNA (acido desossiribonucleico). Per poter fabbricare un tipo particolare di proteina, il DNA fa una copia di una delle sue numerose sequenze tramite un enzima: la transcriptasi. Questa copia, destinata ad effettuare la trasmissione del messaggio, è chimicamente differente. E’ infatti composta di RNA (acido ribonucleico), una variante del DNA.


Il dogma scientifico iniziale riteneva che fosse possibile solo la trascrizione da DNA in RNA grazie all’azione della transcriptasi inversa. Ma tuttavia la transcriptasi inversa si rivelò capace di sintetizzare DNA a partire da un modello di RNA e questo capovolse l’ipotesi a senso unico imposta fino ad allora.
L’enzima che rendeva questo fenomeno possibile venne quindi chiamato “transcriptasi inversa”.


Senza aspettare i risultati di numerosi esperimenti di controllo che questa scoperta rivoluzionaria implicava, si iniziò a descrivere l’attività di questo enzima in alcuni campioni ipoteticamente purificati di virus associati a certi tipi di leucemia e cancro nei topi e nei polli.
Questa tipologia di virus venne ribattezzata con il nome di “retrovirus”.
Il problema principale è che Temin e Baltimore non verificarono mai la purezza dei campioni virali nei quali avevano identificato l’attività enzimatica in questione. Tuttavia, poco tempo dopo la loro pubblicazione del 1970, divenne evidente come la transcriptasi inversa fosse un fenomeno estremamente diffuso in biologia. Dal 1971 apparve chiaro che la transcriptasi inversa era comune a moltissime cellule animali e anche ai batteri.


Di conseguenza, si sarebbe reso necessario, prima di considerare tale enzima come un “marker retrovirale”, ripetere gli esperimenti di Temin e Baltimore al fine verificare il grado di purificazione nei campioni, al fine di escludere la presenza di detriti cellulari che potevano da soli spiegare la presenza di un’attività di transcriptasi inversa.
Questi controlli non sono mai stati effettuati e l’enzima è considerato da più di trent’anni come il marker principale dei retrovirus.


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LA BANDA 1.16

Due metodi sono utilizzati con successo per purificare i virus, ovvero per isolarli dal resto della preparazione. Uno è basato sull’ultrafiltrazione, l’altro sull’ultracentrifugazione.
Il primo metodo consiste nel filtrare una preparazione in filtri di porosità estremamente fine, bloccando così le particelle al di sopra di una certa dimensione.
Il secondo metodo utilizza la centrifugazione a grande velocità che permette la sedimentazione del preparato in diversi gradienti che dipendono dalla densità degli elementi che li compongono.
Così come la densità dell’acqua pura è di un grammo per millilitro (o di un kilogrammo per litro), la banda di densità di sedimentazione in una soluzione di saccarosio dei retrovirus è di 1.16 grammi per millilitro.
Il problema di questo metodo dei gradienti di densità, ampiamente utilizzato nei laboratori di ricerca, è che i retrovirus non sono i soli ad occupare questa banda di 1,16g/ml. I detriti cellulari, come quelli che vengono chiamati “microvescicole”, sedimentano allo stesso livello nello stesso gradiente.


Identificare del materiale in questo gradiente non è dunque assolutamente sufficiente per proclamare l’isolamento di un retrovirus. La necessità di controllare l’assenza di detriti cellulari tramite il microscopio elettronico è dunque una necessità assoluta, cosa che venne chiaramente sottolineata nel 1973 proprio all’Istituto Pasteur in occasione di una importante conferenza che si occupò esclusivamente dei metodi di purificazione dei retrovirus.


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L’ISOLAMENTO DEL VIRUS


Nell’articolo storico pubblicato nel 1983 da Françoise Barré-Sinoussi, Jean-Cluade Chermann, Luc Montagnier e i loro collaboratori (“Isolation of a T-lymphotropic retrovirus from a patient at risk for acquired immune deficiency syndrome [AIDS]”- Science, volume 220 del 20 maggio 1983, pagg. 868-871), in cui venne annunciato l’isolamento di un retrovirus, l’identificazione dell’attività enzimatica della transcriptasi inversa in una frazione che sedimentava a 1,16g/ml fu proprio la chiave di dimostrazione della presenza di un retrovirus. Ma ormai è ben noto che la transcriptasi inversa non è un marker specifico dei retrovirus così come è ben noto da molto tempo che le frazioni di 1,16g/ml contengono un’abbondanza di detriti cellulari che spiega da sola la presenza di tale attività enzimatica. In questo articolo storico è anche presente un’immagine eseguita con il microscopio elettronico che mostra dei retrovirus sulla superficie di un linfocita. L’immagine è stata interpretata come la prova dell’infezione delle cellule della coltura estratta originariamente da un paziente.


Ma ciò che questo articolo omette di considerare è che le colture sono state mescolate con dei linfociti provenienti da sangue di cordone ombelicale e che la placenta umana è nota da anni per essere un tessuto incredibilmente ricco di retrovirus endogeni (prodotti dalle cellule).
In breve, l’articolo considerato dal mondo intero come la referenza scientifica di base sull’isolamento dell’Hiv, ha le sue fondamenta su tre errori metodologici:

1. Non aver verificato la presenza di detriti cellulari nei campioni analizzati.
2. Avere ignorato l’attività enzimatica di questi stessi detriti cellulari.
3. Aver ignorato la presenza di retrovirus endogeni nelle cellule di origine placentare che erano state aggiunte alle colture.

Questo studio può quindi essere considerato come la dimostrazione della presenza di un retrovirus di verosimile natura endogena nella colture cellulari utilizzate, ma non può essere presentato come la prova dell’isolamento di un retrovirus proveniente da un paziente affetto da Aids.


Soltanto quindici anni più tardi (1997) vennero effettuati degli esperimenti di controllo in due laboratori, uno negli USA e l’altro in Francia. Questi due laboratori hanno pubblicato in maniera congiunta, sulla rivista Virology, i risultati dei loro studi al microscopio elettronico dei gradienti ottenuti da colture cellulari che si ritenevano produttive di Hiv.


In entrambi i casi, gli autori hanno osservato una abbondanza di detriti cellulari senza alcuna evidenza accettabile di particelle retrovirali. Il virus purificato semplicemente non è stato rilevato.
Quasi nello stesso momento, Luc Montagnier venne intervistato dal giornalista Djamel Tahi e finì con l’ammettere che in effetti il presunto Hiv non venne mai purificato nel suo laboratorio.
E’ interessante notare che l’articolo dell’Istituto Pasteur del 1973 che abbiamo citato in precedenza affermava chiaramente che una attività di transcriptasi inversa era presente nei detriti cellulari. Per quanto ciò possa sembrare incredibile, è proprio all’Istituto Pasteur che, dieci anni più tardi, nel 1983, il ruolo dei detriti cellulari sia stato ignorato, mettendo la ricerca sull’Aids su una strada errata che continua da trent’anni.


   LE FOTO DEL VIRUS


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Sulle riviste di tutto il mondo sono apparse immagini grandiose e variopinte del presunto Hiv, immagini totalmente artificiali e ritoccate al computer.
A livello psicosociale, esibire tali immagini al mondo intero, sia agli scienziati che alla gente comune, equivale ad inviare un messaggio apparentemente limpido e chiaro: l’Hiv è stato effettivamente isolato poiché è possibile vederlo al microscopio elettronico. E questa è una enorme menzogna.


Tutte queste immagini provengono da colture cellulari. Non una sola di esse proviene direttamente da un malato di Aids, nemmeno da quelli ai quali si attribuisce l’assurda etichetta di avere una “carica virale” elevata.


Tutto porta a credere che nell’articolo di Montagnier del 1983 i retrovirus endogeni del linfocita proveniente dal sangue del cordone ombelicale siano stati attivati dalle condizioni particolari della coltura. Tutte queste colture sono state iperstimolate con sostanze mitogene e stimolanti come la fitoemagglutinina (PHA), il fattore di crescita dei linfociti (TCGF), INTERLEUCHINA 2 e inoltre i corticosteroidi. Ora, tutte queste sostanze sono conosciute come attivanti dell’espressione di retrovirus endogeni presenti in ognuno di noi.



UN PROTOCOLLO NON RISPETTATO


Per poter arrogarsi il diritto di aver dimostrato l’esistenza di un retrovirus specifico bisogna assolutamente rispettare quanto segue:
1. A partire da un prelievo effettuato da un paziente, bisogna ottenere un campione purificato, ovvero ripulito da tutti gli elementi non-retrovirali. Questo campione non deve contenere quindi altro che retrovirus.


2. Analizzare il campione al fine di dimostrare da un lato la presenza di RNA (e non di DNA) e dall’altro la presenza di proteine di origine retrovirale.
3. Il campione va quindi messo in coltura per verificare il fatto che i retrovirus che esso contiene penetrino nelle cellule della coltura (ovvero che avvenga l’infezione).
4. Mettere in evidenza che le cellule infettate inizino a loro volta a produrre altri retrovirus.
5. Verificare che questi nuovi retrovirus così prodotti possiedano le stesse identiche caratteristiche (RNA e proteine) del campione di partenza.
Bene, in tutti gli articoli e le ricerche pubblicate in trent’anni, non esiste una sola équipe di ricerca che abbia lavorato su un campione purificato, il che significa che la prima e indispensabile regola del protocollo non è mai stata rispettata.


L’AIDS NON E’ UNA MALATTIA SESSUALMENTE TRASMISSIBILE – EVIDENZE SCIENTIFICHE –


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Tutte le malattie veneree (sifilide, blenoraggia, herpes genitale o anale, etc…), essendo sessualmente trasmissibili, provocano un’infezione i cui sintomi sono visibili e evidenti nel giro di qualche giorno, e ciò accade senza distinzione tra gli individui.
Per contro, il presunto retrovirus Hiv provocherebbe una reazione immunitaria (“sieroconversione”) dopo diverse settimane o mesi e colpirebbe di preferenza certe categorie di individui secondo una schema variabile anche in base alla geografia. In un’infezione classica, è possibile inoltre mettere in evidenza l’agente patogeno specifico mentre nel caso dell’Hiv, come ormai è noto, il virus è invisibile se non si ricorre ai presunti markers molecolari, totalmente inattendibili.


L’AIDS NEGLI OMOSESSUALI


I primi cinque casi di Aids vennero osservati e descritti a Los Angeles nel 1981. L’autore del primo report su questi cinque casi iniziali, Michael Gottlieb, aveva indicato chiaramente che questi cinque pazienti erano tutti omosessuali e facevano tutti uso di nitriti inalanti  (“poppers”).


Inoltre, Gottlieb sottolineò che questi cinque uomini non si erano mai incontrati e quindi la possibilità di un contagio era impossibile. Cosa ha potuto quindi far pensare a Gottlieb di trovarsi davanti ad una nuova malattia infettiva? Non esiste giustificazione logica per tale forzatura deduttiva, e la domanda rimane quindi senza risposta.


Come spiegare quindi il fatto che il dr. Gottlieb non abbia ragionato nello stesso modo e non abbia immediatamente compreso che i suoi cinque pazienti erano tutti stati esposti alle stesse droghe tossiche e di conseguenza avevano sviluppato la stessa malattia?
Un altro aspetto avrebbe inoltre dovuto far dubitare fin dall’inizio dell’ipotesi contagiosa dell’Aids: il fatto che il 95% dei casi totali di Aids riportati nei primi anni era composto da individui di sesso maschile. Nessuna domanda su questa anomalia? Avete mai visto un’epidemia influenzale colpire principalmente soggetti di sesso maschile, omosessuali e nella stessa fascia di età?


Ma queste domande nessuno se le pose, e l’ipotesi della contagiosità dell’Aids continuò a prendere piede e andava salvata a tutti i costi, anche al punto di sorvolare sul fatto che il presunto Hiv sembrava infettare solo i maschi.
La ricerca sull’Hiv divenne all’istante un business enorme in USA. Ma poiché i malati erano solo maschi omosessuali, il numero dei casi non apparve sufficiente per giustificare i finanziamenti monumentali che erano stati subito messi a disposizione degli scienziati. Come ha fatto giustamente notare la giornalista Celia Farber in un articolo del 1992, divenne urgente far terrorizzare e ingannare quanta più gente possibile (ovvero al mondo intero). Da qui nacque l’idea dell’Aids eterosessuale….


 

L’AIDS NEGLI ETEROSESSUALI


Durante l’estate del 1987 iniziò una colossale campagna di intossicazione psicologica mediatica volta a creare il panico nella popolazione eterosessuale. “Nobody is safe from Aids” era il messaggio inviato al mondo dalle autorità sanitarie statunitensi, messaggio diffuso con rara servilità da parte dei mass-media di tutto il pianeta.


Questo creo un vero assalto ai centri diagnostici per l’Hiv. I test positivi come è facile comprendere vista la loro totale inaffidabilità, cominciarono ad essere migliaia anche in persone con uno stile di vita assolutamente normale.
“Ve lo avevamo detto!”, rispondevano fiere e con superbia le autorità di sanità pubblica che avevano annunciato questo flagello capace di colpire tutto il il mondo.
Ma come aveva potuto il virus “migrare” dai gruppi a rischio e diffondersi alla popolazione generale? Semplice: per colpa degli uomini bisessuali.
Il solo modo per salvarsi da questa epidemia era l’astinenza sessuale, al massimo, l’uso del preservativo (con altre mille precauzioni).


Fino ad allora si era affermato che l’Hiv si poteva trasmettere tramite il sangue. Non venivano indicati pericoli per quanto riguarda lo sperma, la saliva, le secrezioni vaginali e il sudore.
Ma la fobia dell’infezione fu tale che la gente iniziava a guardarsi con sospetto. Tutte le persone con un test positivo diventarono degli intoccabili, esclusi dalla vita sociale, rifiutati ovunque, spesso anche dalla propria famiglia. Addirittura alcuni bambini non vennero ammessi a scuola.


Addirittura qualcuno arrivò a dire che l’Aids era una punizione divina per i peccatori. A tanto arrivò la psicosi sociale, con tratti chiaramente deliranti che rimandano ad una epidemia di follia collettiva.
Per dimostrare la non contagiosità dell’Aids, analizzeremo ora tutti i differenti vettori di contagio ipoteticamente responsabili della trasmissione della malattia.


LA TRASMISSIONE TRAMITE SPERMA

 


Se ci si attiene alla ricerca ortodossa, la dimostrazione della trasmissibilità dell’Aids tramite il liquido seminale e tutt’altro che solida. Nel 1991, uno studio pubblicato sulla rivista medica Fertility and Sterility ha dimostrato che su 28 soggetti maschi sieropositivi, solo quattro avevano traccia dell’Hiv nel loro sperma (in realtà, traccia dell’attività enzimatica non specifica attribuita ad un retrovirus). In uno studio precedente, la proporzione era di uno soggetto su dodici. Tutti gli studi effettuati non hanno mai dimostrato più di un 28-30% di campioni di sperma “contaminati” e
bisogna anche sottolineare che gli autori hanno rilevato la presenza di un virus su milioni spermatozoi.
Gli specialisti ortodossi stessi sono concordi nell’affermare che una tale quantità non è sufficiente per il contagio. Ma tuttavia si continua a far credere che lo sperma sia un vettore di contagio.


L’AIDS NEI CARCERATI E NELLE PROSTITUTE


Si è fatto credere che l’Aids fosse particolarmente diffusa nelle carceri a causa della promiscuità sessuale diffusa in questi luoghi a causa dell’assenza di sesso femminile. Ma anche in questo caso i casi di sieropositività si rilevano praticamente solo nei carcerati tossicodipendenti. Analizzando la letteratura si scopre che il tasso di sieropositività nelle carceri del sud Africa è del 2,3% ed è logico aspettarsi quindi che tale tasso sia nettamente inferiore nella popolazione generale. E, invece, le stime “ufficiali” fornite dalle organizzazioni mondiali di salute pubblica comunicano un tasso di sieropositività pari al 20% in tutta la popolazione sud-africana….


Le prostitute vennero considerate fin dall’inizio il gruppo più a rischio di esposizione alle malattie veneree e vennero da subito considerate un grave problema per la sanità pubblica. Ma, stranamente, l’Aids è praticamente introvabile in questo gruppo “a rischio”, e le prostitute sieropositive sono esclusivamente quelle che sono anche tossicodipendenti. L’Aids non ha nessuna caratteristica tipica delle malattie sessualmente trasmissibili reali che si contraggono rapidamente (in qualche giorno), senza distinzione di razza o di sesso maschile o femminile, e con una enorme presenza del microbo rilevabile con facilità nel soggetto infetto.
Gli ortodossi si guardano bene dal commentare queste evidenze e continuano a diffondere l’idea secondo la quale l’Aids si trasmetta per via eterosessuale, soprattutto a causa dei rapporti sessuali con le prostitute.


Anche in questo caso, gli studi scientifici condotti fin dall’inizio della presunta epidemia di Aids dimostrano esattamente il contrario. Uno studio condotto in New Jersey (uno degli Stati in cui si fa maggior uso di droghe) su 62 prostitute diagnosticate sieropositive ha dimostrato che 47 di esse (il 76%) erano tossicomani endovenose. Sulle restanti 15, gli autori hanno ipotizzato che queste avessero mentito riguardo all’uso di droghe e che alcune di esse avessero mostrato di recente altre infezioni sessualmente trasmissibili (causa di falsi positivi).


Un altro studio realizzato in Nevada su 535 prostitute che lavoravano nelle case chiuse non ha rilevato un solo caso di sieropositività. Per contro, nelle prigioni del Nevada venne riscontrato un tasso di sieropositività nelle prostitute detenute pari al 6%. Tutte loro erano tossicomani.
Altri studi simili sono stati condotti a Parigi: su 56 prostitute testate, nemmeno un caso di sieropositività; a Londra: nemmeno un caso di sieropositività su 50 prostitute testate in una clinica specializzata in malattie veneree; a Nuremberg: nessun caso di sieropositività sulle 339 prostitute testate; in Italia: solo le prostitute tossicomani si sono rivelate sieropositive.


LA TRASMISSIONE MADRE-FIGLIO


La scienza ortodossa afferma che il contagio madre-figlio avvenga in 3 modi: durante la vita fetale, durante il parto e tramite allattamento.
Bisogna sapere che gli anticorpi del neonato sono gli stessi della madre. Il bambino inizierà a produrre suoi anticorpi nel giro di qualche mese. E’ dunque logico che dei test anticorpali che siano risultati postivi nella madre possano produrre un risultato identico nel bambino. In assenza di alcun trattamento, il bambino ritorna naturalmente sieronegativo nella maggior parte dei casi.
Sebbene questo sia ben noto alla comunità scientifica, si continua a consigliare, o meglio ad imporre, il trattamento con antiretrovirali a dei neonati, con risultati devastanti su un bambino in fase di sviluppo.
Tutto ciò indica chiaramente che l’Aids, la cui realtà clinica rimane comunque indiscutibile, non ha alcuna caratteristica tipica delle malattie sessualmente trasmissibili e nessuna prova scientifica è mai stata fornita a sostegno di questa assurda tesi.


UNA “MARCIA INDIETRO”?


Il 4 gennaio 2010 il governo statunitense ha preso una decisione alquanto bizzarra, e ancora più bizzaro è il fatto che nessun telegiornale o rivista ne abbia fatto cenno (questa volta Sharon Stone, Bono, Elton John etc.. non erano disponibili?): l‘Hiv è stato rimosso dalle malattie sessualmente trasmissibili di interesse per la salute pubblica perchè, come ha sottoscritto Hillary Clinton “non rappresenta un rischio significativo”.
Ecco un estratto dal documento originale del CDC (Center for Deseases Control):
“HHS/CDC is removing HIV infection from the definition of communicable disease of public health significance contained in 42 CFR 34.2(b) and scope of examination, 42 CFR 34.3 because HIV infection does not represent a communicable disease that is a significant threat to the general U.S. population”.


(per chi volesse consultare il sito del CDC questo è il link:


http://www.cdc.gov/immigrantrefugeehealth/laws-regs/hiv-ban-removal/final-rule-technical-qa.html )


La più grave minaccia nella storia dell’umanità è inspiegabilmente diventata nel silenzio dei mass-media una “malattia” meno preoccupante della gonorrea, che è invece rimasta nell’elenco delle malattie sessualmente trasmissibili di interesse pubblico.
Ancora una volta, appare evidente come la psicologia del terrore (tra l’altro di bassa caratura agli occhi di uno specialista del settore) utilizzata dalle fonti governative si basi sulla iper-diffusione di notizie false al fine creare sentimenti di panico nel mondo e sul silenzio più totale riguardo alla verità scientifica e oggettiva che viene sottoscritta dopo decenni dalle stesse menti che hanno inventato questa squallida menzogna. La più grave nella storia della scienza


 

 

 

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